Fumo e sospetti Lo strano caso del consolato russo
Le crescenti tensioni tra Mosca e Washington Allarme dei complottisti: bruciano carte segrete
Se c’è fumo, c’è anche arrosto. Se poi il fumo esce dal tetto del consolato russo di San Francisco, è sicuro che brucino documenti riservati. Ci ha messo poco a prendere il volo un’improbabile e infondata teoria cospiratoria, intorno alla faida diplomatica in corso tra Mosca e Washington. Secondo i patiti del genere, sarebbero state le perquisizioni degli edifici di cui è stata ordinata la chiusura, disposte dal Dipartimento di Stato Usa, a costringere i diplomatici russi a gettare i loro segreti nel caminetto.
Parole in libertà, ovviamente. Che troverebbero indiretta conferma, sempre seguendo il labirinto logico cospiratorio, nella protesta formalizzata ieri dalle autorità russe a un funzionario dell’ambasciata Usa a Mosca, contro quelle che Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri, ha definito «ispezioni illegali» e «azioni aggressive senza precedenti».
Ma lasciamo per un attimo i complottisti e anche gli ambientalisti, la maggioranza a San Francisco, che infischiandosene bellamente di cosa bruciassero i russi, si sono invece lamentati contro l’ulteriore inquinamento prodotto dal fumo, in una città che deve già respirare tutto quello causato dagli incendi dei boschi californiani.
Una frase di Zacharova, piuttosto, merita attenzione. Quella in cui ha ipotizzato che i servizi Usa potrebbero usare le ispezioni per «piazzare materiale compromettente» negli edifici. Uno straordinario flash-back. Se continuiamo a pensare che non stiamo ripiombando in una nuova Guerra Fredda tra Mosca e Washington, è indubbio però che, ridimensionata la valenza geopolitica dello scontro, la grammatica e l’iconografia, le paure e i sospetti reciproci sono ancora quelli di allora. Quando per oltre mezzo secolo, «entrare» virtualmente negli edifici del nemico fu ossessione, scienza, vocazione letteraria, ragion di Stato.
Era appena finita la guerra, quando nel 1945 il governo sovietico regalò ad Averell Harriman, l’ambasciatore americano a Mosca, uno stemma degli Stati Uniti intarsiato in betulla di Carelia, per celebrare l’alleanza che aveva sconfitto il nazismo. Era così bello che il diplomatico lo appese nel suo ufficio. Passarono sette anni e quattro ambasciatori, prima che gli americani nel 1952 scoprissero per caso ben nascosta nel legno una pulce a forma di matita, sofisticato congegno a risonanza, quindi eterno, che aveva permesso al Kgb di ascoltare tutte le conversazioni dei capi missione Usa.
Le tensioni giunsero al diapason nel 1977, quando i sovietici inaugurarono la loro nuova ambasciata a Washington, sulla collina sopra Georgetown, una vera piattaforma d’ascolto, con visuale in linea retta sulla Casa Bianca, dotata di apparecchiature al laser in grado di captare le conversazioni in tutte le sue stanze con finestre verso Nord.
La risposta americana non tardò: il Fbi e la Nsa acquistarono una casa dall’altra parte della strada e cominciarono a scavare un tunnel. Mirata a piazzare congegni d’ascolto sotto la missione, l’operazione Monopoly fu un fallimento: appena dieci metri di tunnel costarono diverse centinaia di milioni, anche per i frequenti allagamenti. Di più, i sovietici ne scoprirono l’esistenza grazie a una loro talpa nel Fbi, Robert Hanssen, poi arrestato nel 1980.
Quasi leggendaria rimane la vicenda dell’ambasciata Usa a Mosca, la cui costruzione cominciò nel 1979, con operai russi tutti controllati dal Kgb, talmente infestata di pulci che se attivate avrebbero trasmesso tutto quanto si diceva all’interno. Gli americani spesero inutilmente milioni di dollari nel tentativo di bonificarla. Nel 1989 l’Amministrazione Bush pensò seriamente di raderla al suolo e ricostruirla. Ma venne il fallito golpe del 1991, il partito comunista svanì e il nuovo capo del Kgb, Vadim Bakatin, uomo della perestrojka, un mattino si presentò a Robert Strauss, l’ambasciatore americano, con le piantine che indicavano dove stavano le pulci. «Questo forse la interessa», disse. L’ambasciata è ancora lì. Ma, con l’aria che tira, non giureremmo sia a prova d’ascolto.