Corriere della Sera

L’impotenza per un’eredità obbligata

- Paolo Mereghetti

Scandito in tre atti, Foxtrot di Samuel Maoz (Leone d’oro 2009 per Lebanon) cerca i toni dell’assurdo per raccontare la sensazione di impotenza di fronte alle cose che vive un popolo che si sente sempre sotto assedio come quello israeliano. E che però non può fare a meno di confrontar­si col peso dei propri errori e delle proprie colpe. Il primo «atto» si svolge nell’appartamen­to di un architetto e sua moglie, a cui tre soldati annunciano la «caduta nell’adempiment­o del proprio dovere» del figlio Jonathan: il dolore prende allora le forme più diverse, dalla rassegnazi­one al silenzio fino alla rabbia per l’insensibil­ità burocratic­a di chi tratta la morte come una delle tante pratiche da sbrigare in fretta. Il secondo «atto» porta indietro nel tempo, al posto di blocco nel deserto dove stava con altre reclute il giovane Jonathan, schiacciat­o da una routine che annulla ogni volontà e dove le regole d’ingaggio fanno i conti con l’assurdo (a quel posto di blocco si contano più dromedari che auto). Il terzo «atto» torna nell’abitazione dei due genitori, qualche tempo dopo i fatti raccontati. Tutto è tenuto insieme da una claustrofo­bia che non è solo ambientale ma anche psicologic­a, visto che genitori e reclute sembrano incapaci di reagire di fronte ai colpi del destino, che sono molti di più di quelli che si possono dire senza rovinare la sorpresa allo spettatore. Anche perché ognuno si porta dietro una colpa da cui non sa liberarsi e che il regista racconta come un’eredità obbligata dell’essere eternament­e in guerra degli israeliani. E che, come il ballo del titolo, riporta le persone sempre al punto di partenza.

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Con il fucile Una scena di «Foxtrot»

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