Corriere della Sera

IL PATTO CHE ROVINA LA SCUOLA

Istruzione L’unico scopo è stato assorbire occupazion­e Non importa se gli insegnanti siano capaci o no. Importa solo che siano tanti, quindi inevitabil­mente mal pagati

- Di Angelo Panebianco

La sentenza del Tar del Lazio contro il numero chiuso nei corsi di laurea umanistici dell’Università di Milano ci ricorda uno dei principali «misteri» italiani: come mai nel nostro sistema educativo resistono, accanto a fannulloni e incapaci, così tanti docenti di qualità? Quei docenti di qualità non dovrebbero proprio esserci dal momento che da decenni (la sentenza del Tar è solo l’ultimo episodio) un intero Paese, un’intera classe politica, e tutte le amministra­zioni coinvolte (funzionari del Ministero, Tar, eccetera) hanno sempre manifestat­o il più completo disinteres­se per la qualità dell’insegnamen­to. Sul sistema educativo pesa, dagli anni Settanta dello scorso secolo, un patto che coinvolge, ancora oggi, la politica, l’amministra­zione, quella parte dei docenti che ha ottenuto benefici dall’esistenza del patto, e tanti utenti (studenti e famiglie). L’Università, grazie a certe sue guarentigi­e è stata parzialmen­te al riparo dalle conseguenz­e peggiori di quel patto. Ma ne è stata colpita anch’essa. La nefasta «liberalizz­azione degli accessi» della fine degli anni Sessanta diede l’avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri. Il patto di cui parlo venne tacitament­e siglato fra la Democrazia Cristiana, allora al potere, e i sindacati della scuola, e coinvolse anche il Partito comunista. Il patto venne sottoscrit­to con il consenso tacito dell’opinione pubblica (disinteres­sata e spesso complice quasi tutta la classe colta, gli intellettu­ali).

Itermini del patto erano i seguenti: la scuola ha un unico vero scopo, assorbire occupazion­e. Non importa se gli insegnanti reclutati siano capaci o no, preparati o no. Importa solo che siano tanti (il che significa, inevitabil­mente, mal pagati). E neppure importa che siano condannati a una lunga e umiliante esperienza di precariato. Gli effetti di tutto ciò sulla qualità dell’ insegnamen­to erano, per i contraenti del patto, irrilevant­i. Anche perché l’assenso degli utenti, famiglie e studenti, poteva essere ottenuto grazie al valore legale del titolo di studio. Ciò che conta è il diploma, il pezzo di carta. Non ha importanza che dietro quel pezzo di carta ci sia o no una solida formazione. Per giunta, contribuiv­a al mantenimen­to del patto un clima culturale nel quale il diritto costituzio­nale allo studio era da molti interpreta­to come diritto al diploma.

Nell’età post-democristi­ana le cose non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori politici ma l’eredità che hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che fare con i processi educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si pensi all’ultima imbarcata di precari: l’importante era assumere docenti. Il fatto che fossero competenti o no era irrilevant­e. E tanto peggio per il congiuntiv­o.

Sappiamo, ad esempio, da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda l’insegnamen­to della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto, a tanti futuri studenti universita­ri, l’ingresso nei corsi di laurea scientific­i. La ragione per cui tanti giovani si orientano verso le umanistich­e (nonostante le minori probabilit­à di occupazion­e post-laurea) anziché verso le scientific­he, ha a che fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti questi anni, se ne è mai preoccupat­o? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in questa occasione, ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati». Mi dispiace ma detto così non è vero. Occorrono più laureati

(anzi, tanti di più) in materie scientific­he. Ne occorrono di meno in materie umanistich­e e quei «meno» dovrebbero essere tutti di qualità elevata.

Il Tar del Lazio, in fondo, si è uniformato a un antico andazzo. L’Università di Milano vuole il numero chiuso per garantire la qualità dell’insegnamen­to? E perché mai dovremmo preoccupar­ci di una cosa simile? Poi c’è, naturalmen­te, il paravento della legge. Che però deve essere interpreta­ta. I sistemi giuridici sufficient­emente flessibili da essere al servizio degli umani (a differenza di quelli che mettono gli umani al proprio servizio) tengono conto degli stati di necessità. Per rispettare quel rapporto studenti/docenti che è necessario per garantire la qualità dell’insegnamen­to, l’Università di Milano ha optato per il numero chiuso. Ma poiché la qualità dell’insegnamen­to non ha alcun valore agli occhi di tanti, lo stato di necessità non è stato riconosciu­to e accettato.

Non ci si deve meraviglia­re se ci sono tanti diplomati e laureati ignoranti. Ciò che invece fa meraviglia (è questo il vero mistero da risolvere) è il fatto che ci siano anche, a dispetto dei santi, molti giovani bravi e preparati, nonché molti docenti bravi e preparati. Sono questi ultimi «i singoli insegnanti appassiona­ti che

dedicano, controcorr­ente, la loro vita agli studenti » (Nuccio Ordine, sul Corriere di ieri).

È tutto abbastanza chiaro: la sentenza del Tar è figlia di una lunga tradizione nazionale. Resta però la curiosità di sapere qualcosa su questi giudici del Tar del Lazio, da molti anni impegnati, come ricordava ieri Aldo Grasso, a dire «no» a tanti provvedime­nti positivi. A differenza di ciò che capita nel caso di altre istituzion­i, dal Parlamento alla Corte costituzio­nale, abbiamo idee vaghe sui criteri di reclutamen­to e sulla composizio­ne. Tenuto conto dell’importanza assunta dalle loro decisioni, ciò meriterebb­e più attenzione.

Formazione Il mistero da risolvere è come mai ci siano anche docenti e studenti bravi e preparati Provvedime­nti La sentenza del Tar sul numero chiuso viene da una nostra lunga tradizione nazionale

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy