Il permesso e la fuga
Riconosciuto su una bici, è scappato a piedi Sperava di far perdere le sue tracce in Francia
È stata una corsa contro il tempo, nel timore che il duplice stupro di Rimini nella notte tra il 25 e il 26 agosto fosse il colpo di fine stagione della banda in Riviera, pronta a dileguarsi dopo l’estate. E così sarebbe stato accaduto per il presunto capo del gruppo, il congolese Guerlin Butungu, l’unico maggiorenne, se fosse riuscito a fuggire a bordo del treno su cui l’hanno fermato. «È andato in Francia», avevano detto i complici marocchini quando ne hanno svelato il nome agli investigatori. E probabilmente la Francia era la meta di Butungu, titolare di un permesso di soggiorno in Italia per motivi umanitari ormai inservibile.
Gliel’aveva accordato la commissione territoriale di Ancona, dopo aver respinto la domanda di asilo politico presentata nel 2015, dopo lo sbarco da irregolare sull’isola di Lampedusa. Non c’erano i requisiti per lo status di rifugiato, stabilì l’apposito organismo nel 2016, trasmettendo però gli atti alla questura di Pesaro per il rilascio del permesso umanitario: una sorta di protezione attenuata, applicata normalmente a chi proviene da Paesi come il Congo dove la violazione dei diritti umani non è certa ma non è sicuro che non ci sia, valida due anni e rinnovabile in assenza di controindicazioni. Per Butungu sarebbe scaduta nel 2018, ma verosimilmente è finita insieme alla sua fuga.
L’altro ieri i poliziotti del Servizio centrale operativo — guidati dal direttore Alessandro Giuliano e dal capo della seconda Divisione, Alfredo Fabbrocini — avevano recuperato il suo nuovo numero telefonico attraverso gli amici del congolese rintracciati sul suo profilo facebook. Dopo una serie di indicazioni su contatti e frequentazioni recenti sono giunti a una casa dove pensavano di trovare Butungu e invece c’era un cittadino del Bangladesh, che ha fornito l’ultimo recapito del ricercato: un numero di cellulare appena attivato, in sostituzione di quello che aveva la notte dello stupro. Ma il nuovo telefonino risultava spento, finché improvvisamente s’è acceso e il localizzatore lo dava in movimento da Pesaro verso nord.
«Sta su un treno», si sono detti gli investigatori precipitandosi alla stazione, per verificare i movimenti dei convogli: troppo tardi, il regionale per Milano era già partito. A quel punto hanno deciso di aspettarlo alla stazione di Rimini, dove gli uomini della Squadra mobile agli ordini del dirigente e del questore Maurizio Improta hanno predisposto tutto per bloccare il treno oltre la sosta abituale. Quando i vagoni si sono fermati, i poliziotti sono saliti e hanno cominciato a perlustrarli uno ad uno; Butungu era acquattato in uno scompartimento della quinta carrozza, da solo, con un grande trolley-valigia e tre borse, che evidentemente aveva avuto il tempo di riempire in qualche rifugio che non è stato ancora individuato. Gli hanno chiesto i documenti e ha risposto che non ne aveva; gli hanno chiesto il telefonino e ha negato di possederlo, ma da una rapida perquisizione è saltato fuori lo stesso cellulare tracciato dagli investigatori. E poi un coltello, e un orologio marca Casio, rotto, che a prima vista sembra corrispondere a quello rubato al ragazzo della donna polacca violentata la notte del 25 agosto.
Così s’è conclusa la caccia all’ultimo fuggitivo, dopo una settimana di indagini serrate cominciate con le testimonianze delle vittime degli stupri; confuse e pressoché prive di indicazioni utili quelle dei due polacchi, ricco di particolari e dettagli quella della transessuale peruviana assalita poco dopo. Ha individuato con precisione il luogo dell’aggressione, dove sono stati trovati molti reperti da analizzare; ha detto che era un gruppo di persone che certamente non viveva in strada, ben vestiti e forse improfumati; uno di loro, seppure ubriaco, aveva rivelato di avere una casa dove gli sarebbe piaciuto portarla, e da come i due ragazzi più giovani si atteggiavano con il nero più grande aveva persino intuito che potevano essere fratelli. Ma soprattutto la peruviana ha tracciato un identikit molto preciso di quello che anche a lei sembrava il capo del gruppo, che è servito a identificare Butungu sul treno e — poco prima — a individuarlo su una bicicletta vicino al campus dove avevano appena arrestato il terzo accusato degli stupri, il nigeriano minorenne indicato dai due fratelli marocchini. I poliziotti a bordo di un paio di Volanti l’hanno notato a distanza, lui s’è accorto, ha abbandonato la bici ed è scappato a piedi, riuscendo a dileguarsi. Finché ha riacceso il telefonino, a bordo del treno.
Le informazioni raccolte «sulla strada» da confidenti, commercianti, edicolanti, affittuari di biciclette — a cui venivano mostrate le immagini delle telecamere di sorveglianza con le sembianze degli assalitori, senza una loro diffusione generalizzata — hanno spostato l’attenzione e le ricerche da Rimini verso Pesaro. La decisione di far pubblicare un fotogramma in cui il padre dei due ragazzi marocchini ha riconosciuto i suoi figli ha portato alla loro consegna, e ai nomi del nigeriano e di Butungu. Fino alla corsa per rincorrere e fermare quel treno.