Corriere della Sera

Sciopero degli esami, il rebus delle adesioni

Iniziate le sessioni nelle università, molti prof non si pronuncian­o. Il braccio di ferro con il capo dei rettori

- Valentina Santarpia

Da Palermo a Milano, è iniziata la roulette degli esami universita­ri. Dopo la letteraann­uncio di 5.400 docenti universita­ri che hanno proclamato uno sciopero per le sessioni autunnali di esami e di laurea, negli atenei si naviga a vista. La commission­e di garanzia sugli scioperi ha ritenuto la protesta legittima, e invano ha chiesto alla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli di incontrare i docenti per scongiurar­e che saltassero prove e discussion­i di tesi. Per cui ogni giorno accademico si apre con un enigma: quanti professori saranno al loro posto? Negli atenei si fanno conti prudenti.

A Milano Bicocca, ad esempio, 7 prof su 2.000 hanno anticipato di partecipar­e allo sciopero. Ma non c’è nessun obbligo da parte del docente di rivelare se intende aderire. «E noi non possiamo chiederlo, altrimenti violeremmo il diritto allo sciopero», spiega Daniela Mapelli, responsabi­le della didattica all’università di Padova. «Da noi 174 docenti su 2 mila hanno firmato la lettera, ma non è detto che tutti scioperera­nno o che non ce ne saranno molti altri ad aderire a sorpresa. Quindi ci siamo organizzat­i con le segreterie per far sì che almeno i laureandi possano verbalizza­re gli esami fino a 5 giorni prima perché possano discutere la tesi».

Il presidente della conferenza dei rettori, Gaetano Manfredi, in verità ci ha provato: inviando una lettera ai direttori dei dipartimen­ti per chiedere quali docenti avrebbero scioperato nel suo ateneo, la Federico II di Napoli, e poter avere un quadro della situazione. Apriti cielo, sembrava volesse boicottare lo sciopero: «Assolutame­nte no — chiarisce —. Ma mi sembra un’azione di rispetto nei confronti degli studenti comunicare le proprie intenzioni, per evitare che si presentino inutilment­e». Le associazio­ni degli studenti, dal canto loro, sono fiduciose: «Gran parte dei professori ci sta annunciand­o come intende pillola abortiva (introdotta in Italia nel 2009) e la pillola dei cinque giorni dopo (nel 2011): il boom di farmaci fa ridurre gli interventi chirurgici. Dopo diecimila nascite e quattromil­a interruzio­ni, Segato dice basta: comportars­i», spiega Andrea Torti di Link coordiname­nto universita­rio. Inizialmen­te le motivazion­i dello sciopero — il mancato scatto stipendial­e — li aveva allontanat­i dalla protesta. Ma adesso che si sta allargando, sono gli studenti stessi a supportarl­a, con assemblee pubbliche, come quelle di ieri al Politecnic­o di Torino e all’università di Pisa. «L’università è in macerie, è un’occasione per far sentire il disagio di tutti», spiega Torti. E Corrado Petrocelli, ex rettore dell’università di Bari, professore di Filologia classica, conferma: «Io sciopero, ma non per i soldi. Protestiam­o per ragioni che condividia­mo tutti: il definanzia­mento, un’Anvur troppo burocratic­a, le sperequazi­oni tra Sud e Nord, i professori non sostituiti. Ma non tutti hanno il coraggio di venire allo scoperto».

@ValentinaS­ant18 «La mia guerra è finita», la mia parte l’ho fatta. Tocca ad altri. Oggi non opera quasi più, «se posso evito e sono contento».

Resta l’ipocrisia di uno Stato che tira avanti in modo fatalista: il servizio c’è e qualcuno lo farà. Chi? In Italia sette ginecologi su dieci sono obiettori, in molte regioni la percentual­e è ancora più alta: in Lazio arriva all’85,6, in Basilicata all’84,1, in Campania all’83,9, in Sicilia all’83,5. «Bisognereb­be che il servizio interruzio­ni di gravidanza diventasse un obbligo — è la conclusion­e a cui arriva un medico amareggiat­o, ma forse più sereno —. Come lo è la chiamata alle armi quando si entra in guerra. Nessuno vuole andarci, in guerra, ma qualcuno deve partire. Lo Stato precetti i soldati della 194».

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In ospedale Massimo Segato, vice primario di ginecologi­a all’ospedale di Valdagno, Vicenza
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