Corriere della Sera

CARLO ALBERTO UN SOLDATO ITALIANO

DALLA CHIESA

- Ginocod@libero.it Alessandro Varizzo,

Concordo con la sua risposta alla lettera sulla Puglia. Per i comuni mortali che non si muovono in aereo e in elicottero c’è però il problema della viabilità. Non appena si esce dalle autostrade si è vittime delle buche e, in generale, di una viabilità a dir poco miserevole! La scorsa settimana sono passato per la tangenzial­e di Foggia e per le strade a essa collegate: il fondo era talmente sconnesso che si andava a passo d’uomo per evitare di distrugger­e l’automobile! Una volta arrivati a destinazio­ne, però... Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579

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Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere

Caro Aldo,

per quale motivo secondo lei si è, giustament­e, celebrato con tanta evidenza il 35° anniversar­io dell’assassinio del generale Dalla Chiesa?

Torino

Caro Alessandro,

Credo che nel Paese esista un salutare senso di colpa nei confronti di Dalla Chiesa, mandato a morire a Palermo per mano della mafia. Il generale è stato un personaggi­o importante nella storia d’Italia. È stato il soldato per eccellenza del dopoguerra. Perché ha combattuto tutti i nemici dello Stato: banditi, separatist­i, terroristi, mafiosi. E perché la sua storia incrocia due elementi costitutiv­i dell’identità italiana: i carabinier­i, e la Sicilia.

I carabinier­i c’erano già quando l’Italia non c’era ancora. Fedeli al re, fecero la Resistenza; e lo stesso Carlo Alberto Dalla Chiesa, figlio del vicecomand­ante dell’Arma, forte di quel suo nome risorgimen­tale, si batté al fianco dei partigiani in Abruzzo, salvando centinaia di prigionier­i inglesi sfuggiti ai tedeschi. Subito dopo il giovane ufficiale chiede come destinazio­ne la Sicilia, dove la mafia appoggia gli indipenden­tisti e il bandito Giuliano spara sui braccianti. È una storia che racconta molto bene il nostro Andrea Galli nel suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori. Quando poi una parte del movimento post-68 si radicalizz­a, Dalla Chiesa sgomina le prime Brigate Rosse; e quando il terrorismo risorge, o viene fatto risorgere, è ancora lui — dopo aver riportato l’ordine nelle carceri — ad assestare i colpi più duri alle Br, grazie anche al pentimento di Peci.

I soldati non sono santi, e la memoria di Dalla Chiesa non ha bisogno di agiografie. Visse anni terribili, conobbe i lati gloriosi e quelli oscuri del nostro Paese. Sconfitta l’eversione, volle affrontare l’altro grande nemico dello Stato: la mafia. Ma la Palermo del 1982 non era quella di oggi. Il maxiproces­so era di là da venire. Riina e Provenzano erano liberi. La battaglia culturale contro Cosa Nostra era tutta da combattere. La Sicilia non esprimeva Sergio Mattarella e Pietro Grasso, ma Salvo Lima e i cugini Salvo. Il generale, divenuto prefetto, fu isolato, esposto, additato, come lui stesso denunciò nella storica intervista a Giorgio Bocca. Ma se la mafia dopo allora ha subito colpi durissimi, è stato anche a causa della sua ostinazion­e, del suo coraggio, del suo sacrificio; che precede di dieci anni quello di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mafia ha ucciso Dalla Chiesa; non l’ha sconfitto.

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