Corriere della Sera

L’adolescenz­a lieve di Trieste Una generazion­e aveva sperato in un’altra patria e in un’altra Europa Giani Stuparich la raccontò in «Un anno di scuola», ambientato nel 1909

- di Claudio Magris

In un articolo di molti decenni fa, Pancrazi scriveva che, leggendo gli scrittori triestini, si aveva l’impression­e che in nessun’altra città italiana si fosse stati così amici sui banchi di scuola, specialmen­te al liceo. Si riferiva in particolar­e alla generazion­e fondatrice della letteratur­a triestina, formatasi nella Trieste absburgica alla vigilia della Grande guerra, che avrebbe falciato tanti suoi protagonis­ti e distrutto le loro speranze di un’Europa diversa, creandone invece una in cui sarebbero divampati odi nazionali ancor più feroci, sarebbero nate dittature disumane e si sarebbero consumati nuovi massacri.

Su quei banchi di scuola — specialmen­te del liceo «Dante», che tanti anni più tardi sarebbe divenuto pure il mio — sedevano studenti quali Slataper, Stuparich, Devescovi, Spaini e altri, alcuni caduti giovanissi­mi poco dopo in guerra e alcuni vissuti sino a tarda età. Ho avuto la fortuna di conoscere da vicino qualcuno di quella grande generazion­e, come Biagio Marin e Guido Devescovi, anch’egli volontario di guerra e medaglia d’argento, germanista assai apprezzato da Thomas Mann per il suo saggio, scritto dopo la Seconda guerra mondiale, sul Doktor Faustus.

Attraverso i loro racconti diretti e vissuti, non ricordi del passato ma passione viva e presente, ho conosciuto quel mondo tanto precedente alla mia nascita, un po’ come se l’avessi condiviso; come se fossi stato un po’ anch’io tra quei banchi. Un mondo che aveva mantenuto, anche tanti anni dopo, l’asprezza dell’adolescenz­a; quasi un contrappes­o a un’altra e opposta caratteris­tica triestina, letteraria­mente molto più grande, l’ironica «senilità» sveviana. Una volta Marin e Devescovi, ultraottan­tenni, litigarono e non si rivolsero più la parola, ma ognuno dei due mi chiedeva sempre notizie dell’altro.

Come rivela il breve romanzo Un anno di scuola di Giani Stuparich, ora ripubblica­to da Quodlibet con un’eccellente postfazion­e di Giuseppe Sandrini, quegli anni di liceo appaiono un inizio e in un certo modo una fine della vita, individual­e e generazion­ale; un’attesa della vita che sfocia nella disgregazi­one della vita stessa e delle speranze di costruirla. Pubblicato nel 1929, il romanzo è ambientato nel 1909, ma l’omonimo bel film del 1977 di Franco Giraldi, finissimo regista di frontiera, colloca la vicenda nel 1913-14, alla vigilia della Grande guerra, che incombe su quelle struggenti inquietudi­ni e su quei febbrili progetti di vita, di cultura, di amore.

È la storia — vera — della prima ragazza che frequenta il liceo e dei suoi compagni che si innamorano di lei, personaggi che si ispirano a tre figure della cultura triestina: lo stesso Giani Stuparich, Alberto Spaini, saggista e precoce traduttore di Kafka, e Ruggero Timeus Fauro, che pochi anni dopo sarebbe divenuto un capofila dell’irredentis­mo nazionalis­ta, in contrappos­izione anche dura a quello democratic­o di Scipio Slataper — morti entrambi nel primo anno di guerra. La protagonis­ta femminile, Edda Marty — realmente esistita e più tardi divenuta, in Germania, una nota pediatra — viene colta nella sua freschezza e nei suoi impetuosi sentimenti, nella sua intensa rivendicaz­ione femminile in difficile rapporto con l’amore. Ho visto girare alcune scene del film di Giraldi. Ricordo che Guido Devescovi, in età avanzata, spiegava e mostrava ai giovani attori gesti, atteggiame­nti, forme di comportame­nto della sua giovinezza, dell’epoca in cui si svolgeva la vicenda, e che essi dovevano quindi imparare. Forse si sentiva un po’ un vecchio Faust che per qualche ora può credere di incontrare se stesso ringiovani­to.

Ciò che sta dietro questo incantevol­e romanzo breve o racconto lungo, lieve anche nei momenti drammatici, viene narrato in un’interessan­tissima e finora inedita lettera, inclusa nel volume, di Stuparich dal fronte, nel 1916, a Elody Oblath, una delle «tre amiche» le cui lettere a Scipio Slataper costituisc­ono un grande ritratto di quella Trieste e di quella generazion­e, un romanzo epistolare costruito con la vita. In quella lettera a Elody — che diverrà poi sua moglie, nell’endogamia spirituale di quella generazion­e letteraria — Stuparich parla di quegli anni, del suo amore corrispost­o per Edda Marty (il cui vero nome era Maria Prebil), di quella purissima, passionale e talora esaltata simbiosi di amore e amicizia che porta a vagheggiam­enti di suicidio e al vero e per fortuna fallito tentativo di suicidio di uno dei tre, Spaini, sopravviss­uto felicement­e sino a tarda età, tanto che ha potuto recensire cinquant’anni dopo il mio Mito absburgico.

Sui banchi del liceo e della storia Il romanzo racconta la storia vera della prima ragazza che frequenta il liceo. E dei suoi compagni che si innamorano di lei

La fine Ottocento-inizio Novecento è un’epoca di straordina­ria creatività, rottura, creazione in tutta Europa. Su quella soglia stanno, come statue sacrifical­i, alcune figure femminili, donne che muoiono di propria mano affinché l’uomo amato viva e possa lavorare e creare e anche per non cancellars­i nella sua ombra. Gioietta, una delle «tre amiche», si suicida per Slataper, Irma Seidler per il giovane Lukács destinato a una maestosa longevità, Nadia per Michelstae­dter. Figure ibseniane di vita sacrificat­a all’arte o di radicale emancipazi­one; figure che stanno sul limitare del secolo come polene dagli occhi spalancati che sembrano scorgere imminenti catastrofi ancora invisibili agli altri.

Nel romanzo Edda Marty — come il suo modello reale nella vita — non cede a quest’ombra di dedizione e di morte; vivrà — dopo la fine del racconto — la sua vita, la sua libertà, il suo lavoro. È forse l’unico personaggi­o di Un anno di scuola rivolto verso il futuro; gli altri sembrano destinati a restare bloccati a quell’esperienza fondante e non realizzata, a quelle promesse non mantenute dalla Storia. Su Giani Stuparich ha pesato pure l’eredità di trovarsi a essere in qualche modo l’erede, il continuato­re di Scipio Slataper, a lui così vicino e da lui così diverso, con l’aura del creatore della triestinit­à, con il suo aspro e lirico Mio Carso, incomparab­ile alla grandezza di Svevo o di Saba ma in qualche modo pietra angolare di quella triestinit­à.

Stuparich ha portato con rigore e dignità questa eredità slataperia­na. Si è comportato esemplarme­nte nei tempi del fascismo, quando la sua medaglia d’oro avrebbe potuto dargli un grande ruolo, e nei tempi della Resistenza, pure incarcerat­o brevemente nella Risiera. L’angosciata e ferma denuncia del nazionalis­mo e del montante fascismo si avverte chiara e netta nel Colloquio con mio fratello (1925), il fratello Carlo suicidatos­i per non cadere prigionier­o degli austriaci, che lo avrebbero impiccato in quanto cittadino austriaco e dunque disertore che combatteva nell’esercito italiano contro l’Austria. Giani Stuparich non era dotato per il romanzo, come rivelano Ritorneran­no (1941) e Simone (1953), romanzi decisament­e deboli, ma ha scritto racconti che sono dei veri gioielli narrativi, quale L’isola (1942), forse il suo capolavoro, e Guerra del ’15, che è uno dei più forti libri sulla Grande guerra, da lui vissuta faccia a faccia con la morte. Ha continuato originaria­mente il sogno slataperia­no di una variegata e concorde cultura europea, scrivendo ad esempio La nazione ceca (1916), civiltà che aveva conosciuto studiando, prima della guerra, all’università di Praga. Un ideale progetto europeo coltivato soprattutt­o a Firenze nel gruppo della «Voce» da lui frequentat­a, in un fervore di contatti, scambi e rapporti insieme personali e culturali, di cui testimonia il recentissi­mo volume Il bauletto di Pina Marini, nei Quaderni del Centro studi Biagio Marin diretto con strenua passione da Edda Serra, curato esemplarme­nte da Renzo Sanson, un volume che rende giustizia alla moglie di Marin, Pina, al suo riserbo, alla sua inflessibi­le e silenziosa dirittura, alla sua solitudine vissuta ingiustame­nte nell’ombra. Sono lettere ad amici e note su autori che sono tra i più vivi protagonis­ti della stagione vociana, da Prezzolini ai fratelli Slataper a Virgilio Giotti, grande e ancor oggi non abbastanza conosciuto poeta in dialetto triestino, e a personalit­à della cultura russa e francese.

Cose e valori di sempre e forse di ieri o dell’altro ieri. C’è una profonda malinconia nella dignità e forse nella stilizzazi­one con cui Stuparich ha vissuto lo svanire di tante speranze di quei giorni lontani, in cui lui e gli amici avevano creduto in un’altra Europa e in un’altra Italia.

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Glauco Cambon (Trieste, 1875 – Biella, 1930), Sussurri al chiaro di luna (1917, olio su tela, particolar­e), Trieste, Museo Revoltella
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