Un ritratto senza moralismi con eccessi di retorica
Una cosa va subito riconosciuta: al suo secondo film, Sebastiano Riso non ha paura di prendere i suoi rischi. E belli grossi visto che per Una famiglia ha scelto il tema dell’«utero in affitto», raccontando un mondo che definire brutto, sporco e cattivo è ancora un eufemismo. Nessuno che si chieda se quello che sta facendo è giusto o sbagliato, ma solo quanto può rendere, che vantaggio può offrire. È questo il nodo vero: la scelta di cancellare dai suoi personaggi ogni dubbio o preoccupazione morale, offrendo solo alla sua protagonista (una Micaela Ramazzotti che non ha paura di nascondere ogni femminilità) qualche lampo di umanità. Il resto è il ritratto di una società cupa ed egoista, a cominciare dal compagno Vincent (un convincente Patrick Bruel) per proseguire con chi procaccia clienti ai due e finire con chi quei figli li compra, si tratti di vendicative coppie eterosessuali o titubanti coppie gay. Una materia incandescente che Riso maneggia a volte con cautela a volte con qualche eccesso di retorica ma anche con la lucidità che gli ha fornito la consultazione delle intercettazioni telefoniche e dei processi a coppie arrestate. Una lunga documentazione sul campo che lo spinge a non prendere posizione (pure la donna, cui andrebbero le nostre simpatie, ha molti ed evidenti limiti, primo fra tutti una dipendenza ai limiti del patologico dal suo sfruttatore) e che obbliga lo spettatore a fare altrettanto. Homo hominis lupus sembra la lezione che Riso vuole trarre dal mondo che lo circonda: era così per l’esordio Più buio di mezzanotte, è così per Una famiglia, dove dà l’impressione di voler trasmettere a chi guarda soprattutto il dolore (e il disgusto) per un’umanità capace solo di fare del male. Magari cominciando a fare i conti con un vuoto legislativo che genere mostri di questo tipo.