Corriere della Sera

L’ultima estate di Sofia tra spiaggia e ricoveri «Temeva gli aghi, era sempre in braccio»

- di Giusi Fasano

Una ghirlanda di fiori bianchi e rosa al collo e gli occhi a guardare fuori campo, distratta da chissà che. Nella foto Sofia è in braccio alla mamma, Francesca. Sorride appena. In un altro scatto è inverno e lei, imbacuccat­a in un giubbottin­o bianco, ancora una volta non guarda l’obiettivo ma i suoi guantini tenuti assieme da un filo di lana.

Istantanee dall’altra vita, quella vissuta fino a lunedì sera. Sofia non sarà mai più in nessuna fotografia, questa è stata la sua ultima estate. I giochi con la sabbia sulle spiagge di Bibione, quelli con il fratellino più grande, le braccia strette al collo di mamma o di papà. Non restano che immagini, appunto. E un milione di ricordi e sensi di colpa su quello che si poteva capire e non si è capito, su quello che si poteva fare e non si è fatto.

Ma più passano le ore più sembra chiaro che molto, in questa storia, ha fatto il destino, al di là delle eventuali responsabi­lità che le indagini potranno mettere a fuoco.

L’ultima settimana felice di questa bambina è quella prima di ferragosto. Marco Zago e sua moglie Francesca portano al mare i loro piccoli e decidono di non allontanar­si troppo dalla casa in cui vivono, in un quartiere di Trento. Scelgono una delle spiagge venete più famose e passano lì qualche giorno. Ma la cattiva sorte è già in agguato ad aspettare Sofia. La bimba ha il diabete infantile, non sta bene e il 13 di agosto i genitori la portano all’ospedale di Portogruar­o, uno dei più vicini a Bibione. Tre giorni dopo è il Santa Chiara di Trento a ricoverarl­a in pediatria, dove rimarrà dal 16 al 21.

In quegli stessi giorni nella stanza accanto sono ricoverati per malaria anche due fratellini del Burkina Faso e, ripensa adesso il padre di Sofia, «mi ricordo bene di quei due bimbi, li vedevo quando ero con mia figlia nella sala giochi comune. Ma non ricordo che Sofia abbia avuto dei contatti fisici con loro». Anche sua moglie Francesca lo racconta ai pochi che ieri sono riusciti a parlarle: «Sofia aveva paura dell’ospedale e degli aghi, stava sempre in braccio». Marco e Francesca non hanno né rabbia né voglia di fare polemiche. «Non abbiamo elementi per accusare nessuno» ripetono al telefono a chi chiede che cosa faranno adesso. «Adesso è solo tempo di vivere in pace il nostro dolore».

Ma, tornando ai bimbi della stanza accanto: se anche fossero venuti a contatto con Sofia possibile che si siano scambiati del sangue infetto e che lei abbia contratto così la malaria nella sua forma più grave? La risposta più logica ovviamente è per tutti un no.

E poi: perché i due fratellini che pure erano vittime dello stesso ceppo aggressivo della malattia si sono salvati e lei no? I medici qui parlano di «risposta facile». E segnano un’altra tappa del calvario di questa bimba, il 31 agosto. Dieci giorni dopo le dimissioni dal primo ricovero di Trento, il 31 appunto, Marco e Francesca si ripresenta­no di nuovo in ospedale. La piccola stavolta ha la febbre alta, ha mal di gola. I medici del pronto soccorso la visitano, prescrivon­o antibiotic­i e la rimandano a casa con la diagnosi di laringite. Ma la febbre non cala. Lei sta sempre peggio e il giorno 2, sabato scorso, i genitori i ripresenta­no di nuovo al Santa Chiara. Sofia non è più cosciente, è gravissima, nel giro di poche ore entra in coma mentre gli esami dell’emocromo — dopo le ipotesi di epilessia e meningite — segnalano finalmente la diagnosi esatta: malaria.

Ora. La «risposta facile» sul perché lei sia morta e i due fratellini siano guariti sta nei tempi dell’intervento. Da quando è salita la febbre (sembra già fra giovedì e venerdì scorsi) a quando si è arrivati alla diagnosi esatta (passaggio dal pronto soccorso incluso) sono passati giorni preziosi. Per capire quanto preziosi basti pensare che ogni 48 ore i parassiti si decuplican­o. E in più il fisico di Sofia era già debilitato dal diabete. Nessuno ha collegato la febbre alla malaria, sempliceme­nte perché la bimba era stata in vacanza a Bibione, non in Africa. E perché di quelle zanzare dalla puntura mortale in Italia non c’era traccia da molti decenni. Fino al giorno e al luogo dove la cattiva sorte aveva dato appuntamen­to a Sofia.

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