NON LASCIAMO SOLI GLI USA NELLA CRISI NORDCOREANA
Confronto Kim e i suoi antenati sono crudeli calcolatori, non pazzi, convinti (e non da oggi) che solo un arsenale nucleare possa garantire la sicurezza del loro Paese
Ma poi viene il momento in cui la scelta che l’America deve compiere è tra guerra e pace, e quella è l’ora in cui l’inquilino della Casa Bianca, chiunque sia, ridiventa il capo dell’Occidente. Gli alleati degli Stati Uniti devono capire che oggi, mentre la Corea del Nord sviluppa ordigni nucleari sempre più micidiali e acquista la capacità tecnica di colpire gli Stati Uniti, non esistono più vicinanze o lontananze geografiche dal possibile teatro di scontro.
Esistono invece gli schieramenti delle ore gravi, le alleanze che vanno al di là delle persone, e sarebbe un errore, soprattutto per gli europei, non far sentire all’America in tormento la loro vicinanza, i loro pareri, anche le loro amichevoli critiche. Lo ha ben capito Angela Merkel che ieri ha telefonato a Trump non soltanto perché è in campagna elettorale, e c’è da sperare che altri seguiranno, Italia compresa, e verificheranno la possibilità di un vertice transatlantico dedicato esclusivamente all’emergenza nordcoreana.
Perché di emergenza si tratta, non facciamoci illusioni. Davanti ai formidabili (o terribili) progressi compiuti da Kim Jong-un in campo nucleare e in campo missilistico, l’Occidente ha reagito con il consueto istinto pavloviano rimasto immutato dalla presidenza Clinton in poi: dure parole di condanna miste a stupore, limitate contromisure militari per tranquillizzare Seul e Tokyo, lamentele verso la Cina, sanzioni economiche sempre più estese.
Washington, questa volta, vorrebbe che lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvasse una sorta di embargo commerciale mondiale contro la Corea del Nord. Ma ha perfettamente ragione Vladimir Putin quando avverte, come ha fatto ieri, che le sanzioni risulteranno inefficaci perché i dirigenti nordcoreani sono pronti a «mangiare erba» pur di portare avanti il loro programma militare atomico. È appunto questa la terrificante presa d’atto alla quale l’America sta lentamente arrivando, e che non deve sfuggire agli alleati. Kim e i suoi antenati sono lucidi e crudeli calcolatori, non pazzi. Essi sono convinti, e non da oggi,
che soltanto la disponibilità di un arsenale nucleare può garantire la sicurezza della Corea del Nord e la sopravvivenza della sua classe dirigente. Il pericolo può venire dall’odiata America, dalla separata Corea del Sud, e sarà meglio non fidarsi nemmeno della sempre meno amica Cina. Per questo la polizza di assicurazione atomica va perseguita impegnando tutte le risorse, senza badare a carestie o a nuove sanzioni. Per questo la Corea del Nord non diventerà mai «ragionevole» prima di aver avuto dagli Usa il riconoscimento del proprio status di potenza nucleare. E anzi, moltiplicherà le provocazioni per tentare di accelerare il processo.
Per l’America la vera alternativa, dietro lo schermo temporeggiatore delle sanzioni, è tra guerra e pace. La guerra comporterebbe un massacro oggi non misurabile, una apocalisse asiatica che di certo coinvolgerebbe i sudcoreani, le forze statunitensi presenti in Sud Corea e a Guam, forse i giapponesi. E il superamento della soglia nucleare scuoterebbe dalle radici i già fragili equilibri mondiali, economici e geopolitici. La pace richiederebbe un dialogo negoziale assai improbabile senza previe concessioni sullo status di potenza atomica. E comunque renderebbe probabile una proliferazione nucleare regionale che potrebbe coinvolgere, oltre alla Corea del Sud, anche un Giappone tuttora tormentato dalle tragiche memorie di Hiroshima e di Nagasaki. E ancora, fino a che punto potrebbero gli Usa fidarsi degli impegni di una Corea del Nord che conserverebbe una capacità di primo colpo atomico contro il territorio americano o contro le basi americane?
Trump non si mette più sullo stesso piano verbale delle minacce di Kim, dice «vedremo» e rivela così una benvenuta consapevolezza dell’enorme posta in gioco. Se deciderà di colpire, aprirà la porta su un baratro insondabile. Se resterà alla finestra spingendo ancora il pulsante delle sanzioni, di fatto inviterà Kim Jong-un a nuovi e sempre più ultimativi «messaggi» nucleari e balistici. No, gli alleati di Trump non possono guardare dall’altra parte e limitarsi a pronunciare le solite condanne. L’America deve sentirci vicini. E devono sentirci vicini i generali di cui Trump si è circondato, perché saranno loro, nella meno catastrofica delle ipotesi, a dover misurare fin dove si può provare a trattare con i bombaroli atomici di Pyongyang.
Vicinanza Gli alleati di Trump non possono guardare altrove e limitarsi alle solite condanne