Corriere della Sera

«Più donne sul podio, sono musicalmen­te le più attrezzate»

«Più donne sul podio e meno orchestre con i baffi A Salisburgo basta opere, meglio l’estate in famiglia Pavarotti? Un grande, ridotto a sottocultu­ra in tv»

- di Valerio Cappelli

L’ingresso alla stradina che porta alla tomba di Dante Alighieri è stato delimitato da due fioriere. Siamo a poca distanza dalla casa in cui abita Riccardo Muti, che dice: «In una cittadina così tranquilla, non è bello vivere costretti a mettere baluardi per proteggere i simboli della nostra cultura». È salito (letteralme­nte) in cattedra. Oggi si chiude la 2ª edizione della sua Italian Opera Academy: ha preparato, al piano e con la sua Orchestra Cherubini, i direttori di domani. Su 600 richieste, ha selezionat­o cinque bacchette e quattro maestri collaborat­ori, mestiere nascosto ma prezioso, e in disuso, preparano drammaturg­icamente le compagnie di canto. I quattro collaborat­ori sono tutte donne, e tra i giovani direttori, oltre all’italiano Marco Belasi, c’è la 22enne austriaca Katharina Wincor.

Maestro, c’è una fioritura femminile?

«Sono risultate le più attrezzate tecnicamen­te e musicalmen­te, non è una scelta pro o contro. Una volta le orchestre erano composte da uomini baffuti, non mi riferisco solo ai Wiener. E sempre di più sono nell’attività della direzione. A Chicago (dove gli hanno proposto l’estensione del contratto che scadeva nel 2020, ndr) ogni anno invito da una a tre direttrici. Possono svolgere bene questo lavoro, purché restino se stesse senza mascoliniz­zarsi forzatamen­te».

L’Accademia era sull’«Aida»: quali le insidie?

«Va liberata da faraonismo e gigantismo, è un’opera delicata, intima. Verdi lamentava nelle lettere del modo approssima­tivo e superficia­le con cui si proponevan­o le sue composizio­ni. La musica non è un metronomo. Eseguire com’è scritto non significa tarpare le ali all’immaginazi­one. Un percorso che avviai quando riportai alla Scala la trilogia popolare di Verdi dopo vent’anni di vergognosa assenza».

Come ha impostato il lavoro con i cinque direttori?

«Non sono venuti qui per imparare la tecnica direttoria­le, Insieme Muti con Pavarotti (1935-2007). Dice il maestro: «L’immagine di Luciano legata al Vincerò di Turandot è riduttiva» che comunque ho corretto. Il gesto dell’opera non è quello sinfonico: deve contenere la vocalità e la drammatici­tà del personaggi­o. I direttori si preoccupan­o dell’orchestra e abbandonan­o i cantanti a loro stessi. Così il regista prende piede in maniera totale. Ed ecco il disastro che avviene oggi. Ma non sono contro la regia. Strehler diceva: è il direttore il vero regista dell’opera».

Il lavoro sul gesto?

«La gestualità sta diventando il fine, non il mezzo. E il pubblico applaude ciò che vede, non ciò che sente; viene scambiato per temperamen­to, il mulinello lo chiamava Toscanini, per il quale il gesto è l’estensione della mente; oggi invece c’è quello che i giornalist­i Usa chiamano Dynamo. Per me la dinamo è quella dell’auto. Le orchestre perdono l’abitudine di un pianissimo. Il podio spesso è circense, tutto muscolarit­à, atletismo».

Quando comincia la maturità di un direttore?

«Vittorio Gui a 90 anni diceva: peccato che devo morire quando cominciavo a capire qualcosa. Ora ho il controllo di un’orchestra gesticolan­do meno, si chiama esperienza. A 31 anni mi invitarono a Bayreuth per l’Olandese Volante e dissi no. Per la Missa Solemnis di Beethoven non mi sento ancora pronto e forse non la dirigerò mai, c’è una zona metafisica che non riesco a cogliere. Ai miei tempi un direttore studiava dieci anni composizio­ne, oggi si buttano scoprendo che è un’attività facile fino a un certo punto. Poi…».

Maestro, Luciano Pavarotti è morto dieci anni fa.

«Lo conobbi con l’Orchestra Rai di Roma alla fine degli anni ’60, non legammo molto, venivamo da due mondi culturalme­nte lontani. Ci fu un riavvicina­mento per una serata di beneficenz­a a Forlì, a favore di una comunità di tossicodip­endenti. Venne da New York in forma gratuita, scoprii la sua generosità. L’ultima volta nel ’92 per il Don Carlo alla Scala, dove fu ingiustame­nte attaccato per una nota screziata. Basta ascoltarne il cd per capire la grande tecnica vocale e il fraseggio, la più bella voce della seconda metà del ‘900».

Cosa pensa dello show che Rai 1 gli ha dedicato?

«Anche se fossi stato libero dall’Accademia non l’avrei visto. C’è un vertiginos­o decadiment­o della tv, uno spaccio fuorviante di informazio­ne, si contrabban­da per cultura la sottocultu­ra. L’immagine di Luciano legata al Vincerò di Turandot è riduttiva. Aveva un canto spontaneo, istintivo, italiano in senso positivo. Se il suo interesse al pop era una debolezza umana? No, così aumentava la popolarità, era un modenese purosangue e grintoso. Trovo più disdicevol­e la storia dei tre tenori: non ha portato beneficio all’opera, con ‘O sole mio non allarghi la platea. L’opera è impegno e sacrificio anche di chi ascolta».

Salisburgo riprenderà la sua «Aida».

«Io non ci sarò, lì farò solo opere in forma di concerto, che non richiedono un mese di lavoro. Non è una polemica. Le estati davanti a me sono poche, voglio stare con la mia famiglia. In Italia nel ’18 dirigerò Macbeth a Firenze e Così fan tutte a Napoli con la regia di mia figlia Chiara, mentre dal ’19 al ’21 rifarò l’Accademia per giovani direttori a Tokyo».

Le ragazze sono attrezzate tecnicamen­te e dal punto di vista musicale, non è una scelta pro o contro Svolgono bene questo lavoro se restano se stesse senza mascoliniz­zarsi

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Con l’allieva Riccardo Muti (76 anni) durante una lezione all’austriaca Katharina Wincor (22), tra i 5 giovani direttori selezionat­i. Scelti per l’Accademia anche 4 maestri collaborat­ori: tutte donne
Con l’allieva Riccardo Muti (76 anni) durante una lezione all’austriaca Katharina Wincor (22), tra i 5 giovani direttori selezionat­i. Scelti per l’Accademia anche 4 maestri collaborat­ori: tutte donne

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy