«È
Il ministro alla kermesse FdI. Meloni: lui dialoga
tempo di patrioti», come recita il titolo di Atreju, il convegno organizzato a Roma come ogni anno dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. E tra i «patrioti» convocati, oltre a Matteo Salvini e Giovanni Toti, c’è anche Marco Minniti. Bizzarra collocazione, visto che si tratta di un ministro del Pd. Ma è un ministro che, nonostante una lunga militanza nel Pci, piace molto a destra. Per il piglio deciso con il quale sta lavorando sull’immigrazione, per il decreto sul decoro in città e per l’allarme sulla «tenuta democratica» del Paese. Piglio «austero e controverso», come ha scritto il Guardian, che ha suscitato non pochi malumori nel Pd e nel governo, dove Graziano Delrio non ha nascosto i suoi maldipancia. Ora la convocazione ad Atreju sembra consacrarlo tra gli «eroi» della destra. Se non fosse che la Meloni non è d’accordo: «Non vorrei che passasse questo concetto. C’è stima, per carità, e sta facendo meglio del predecessore. Del resto ci vuole poco, ha avuto la fortuna di arrivare dopo Alfano. E il governo è un po’ rinsavito rispetto al passato. Ma per ora c’è molto fumo e poco arrosto. Fa un passo avanti e due indietro. Dice cose lievemente più ragionevoli degli altri e sembra di destra. Ma non è così». Tra l’altro, all’inizio era previsto un dibattito politico con Ignazio La Russa, ma alla fine Minniti sarà solo e ci saranno solo domande di giornalisti, da Mario Giordano a Gian Micalessin. La Meloni lo ringrazia: «Perché almeno non scappa, come altri. E perché è disposto al dialogo, che rientra nella nostra tradizione». In effetti l’elenco degli avversari intervenuti è lungo. Dallo «storico» incontro di 10 anni tra Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti, «che fu massacrato dal suo partito», a D’Alema, Veltroni, Letta, Bindi, Boldrini. «Gli unici che non sono riuscita a portare sono Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani». per questo sia accolto da un largo fronte. Interno, certo, ma anche internazionale.
Certo, nelle stesse ore il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, dà atto che «l’Italia, nel Mediterraneo, ha salvato l’onore dell’Ue». Omaggio che Mattarella apprezza, ma che, per come vanno le cose a Bruxelles, resta platonico. In quanto tale non può bastare. A Roma, come ad Atene e Malta, «avanguardie generose» di un’Europa inerte, serve ben altro. Mattarella ne parla con inediti toni di severità, quando ricorda come il nostro Paese sia «molto impegnato — e su questo sollecita l’intervento dell’Unione europea — a stabilizzare la Libia, a rendere dignitosa e accettabile la situazione nei campi profughi». Per lui, in sostanza, bisogna che tutti siano coinvolti per «creare delle condizioni di vita accettabili e alleviare le terribili sofferenze» dei migranti bloccati laggiù. Un impegno che, trasferito in una Ue ancora in bilico tra contraddizioni e disagi, va tradotto nel «recupero di una dimensione sociale» in grado di «recuperare la fiducia dei cittadini», sostenendo la crescita e le prospettive di lavoro per i giovani.