Ripresa fragile senza i giovani
Un dato è certo: la ripresa c’è. Ma si potrà parlare di vera crescita solo e soltanto se questa camminerà sulle gambe delle nuove generazioni. Altrimenti qualsiasi ripresa è destinata a durare poco.
La ripresa c’è. Che sia congiunturale (e cioè dipende dal traino degli altri Paesi) o strutturale (è l’Italia che autonomamente cresce), comunque qualcosa sta cambiando. Non sono i celebri decimali a dircelo. Ma quegli indici di fiducia che nelle imprese sono balzati all’insù di quasi sette punti ad agosto. O il fatto che nell’ultimo sondaggio SWG gli italiani che avvertono segni di ripresa sono saliti al 43% mentre erano solo il 38% un anno fa. Di spazio per crescere ce n’è in abbondanza se si pensa che in dieci anni (dal 2007 alla fine del 2016) gli investimenti, vero motore dello sviluppo, nel nostro Paese sono diminuiti del 27%. Basterebbe per questo una lieve spinta per passare da quell’1,2% di crescita già acquisita nel 2017 al 2,2% che è la media europea. Sarebbe però una ben magra consolazione se ci accontentassimo dei soli numeri. Perché si potrà parlar di vera crescita solo e soltanto se questa camminerà sulle gambe dei giovani. E questo non è. Lasciamo pure perdere le statistiche sulla disoccupazione giovanile. Perché sono all’ingrosso e dire che più di un giovane su tre non ha lavoro ci metterebbe fuori strada. Il motivo è banale, considerando la fascia fino a 24 anni, molti di essi probabilmente si stanno ancora formando. E’ quello che Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo, in un loro recente libro sul tema, hanno chiamato “l’inganno generazionale”. Un inganno che ci impedisce di vedere qual è il vero campanello d’allarme che si dovrebbe ascoltare. Si tratta di quel flusso di persone, di giovani che sotto i 40 anni emigrano per mancanza di occupazione. Una perdita di capitale umano che il centro studi della Confindustria stima in circa un punto di prodotto interno lordo, attorno ai 14 miliardi. Il picco nel 2015 con 51 mila emigrati da quei 21 mila del 2008. E’ quello che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, definì commemorando il suo maestro Federico Caffè: uno spreco di talenti. Ebbene quale messaggio stiamo inviando ai nostri ragazzi in questi ultimi anni? E’ questione di mancanza risorse sicuramente. Ma anche di un disinteresse generale nei confronti delle nuove generazioni. Il tempo speso a discutere di pensioni è imparagonabile a quello impiegato per capire quali sono le ragioni che impediscono a un giovane senza mezzi di poter accedere a una formazione decente. Nella scuola così come nelle università si è scambiato il diritto allo studio con il diritto ad avere un pezzo di carta. Dimenticando che il tema è quello della qualità della formazione. Il merito, che è innanzitutto riconoscere che c’è qualcuno più bravo di noi, ha vita magra nelle scuole dove dovrebbe prosperare, e dove invece si è scioperato per impedire che insegnanti migliori ricevessero minime integrazioni salariali. Servono riforme e un governo che individui nel lavoro e nei giovani le priorità. Ma ci sono responsabilità più sottili. Di quei professori che del merito non vogliono sentir parlare, di quegli imprenditori che vedono nei ragazzi persone da sfruttare e non capitale umano, di quei dirigenti e impiegati di uffici pubblici che credono che il loro lavoro sia evitare di prendersi responsabilità, di chi ha scritto norme fatte per non essere capite, di chi ai giovani racconta, per mascherare la propria incapacità, che senza segnalazioni non si va da nessuna parte. Ecco perché se la ripresa c’è, la prima cosa da fare è sfruttarla non per dare più garanzie a chi ne ha già ma per fornire opportunità al futuro. Ai giovani.