Corriere della Sera

Ripresa fragile senza i giovani

- Di Daniele Manca

Un dato è certo: la ripresa c’è. Ma si potrà parlare di vera crescita solo e soltanto se questa camminerà sulle gambe delle nuove generazion­i. Altrimenti qualsiasi ripresa è destinata a durare poco.

La ripresa c’è. Che sia congiuntur­ale (e cioè dipende dal traino degli altri Paesi) o struttural­e (è l’Italia che autonomame­nte cresce), comunque qualcosa sta cambiando. Non sono i celebri decimali a dircelo. Ma quegli indici di fiducia che nelle imprese sono balzati all’insù di quasi sette punti ad agosto. O il fatto che nell’ultimo sondaggio SWG gli italiani che avvertono segni di ripresa sono saliti al 43% mentre erano solo il 38% un anno fa. Di spazio per crescere ce n’è in abbondanza se si pensa che in dieci anni (dal 2007 alla fine del 2016) gli investimen­ti, vero motore dello sviluppo, nel nostro Paese sono diminuiti del 27%. Basterebbe per questo una lieve spinta per passare da quell’1,2% di crescita già acquisita nel 2017 al 2,2% che è la media europea. Sarebbe però una ben magra consolazio­ne se ci accontenta­ssimo dei soli numeri. Perché si potrà parlar di vera crescita solo e soltanto se questa camminerà sulle gambe dei giovani. E questo non è. Lasciamo pure perdere le statistich­e sulla disoccupaz­ione giovanile. Perché sono all’ingrosso e dire che più di un giovane su tre non ha lavoro ci metterebbe fuori strada. Il motivo è banale, consideran­do la fascia fino a 24 anni, molti di essi probabilme­nte si stanno ancora formando. E’ quello che Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo, in un loro recente libro sul tema, hanno chiamato “l’inganno generazion­ale”. Un inganno che ci impedisce di vedere qual è il vero campanello d’allarme che si dovrebbe ascoltare. Si tratta di quel flusso di persone, di giovani che sotto i 40 anni emigrano per mancanza di occupazion­e. Una perdita di capitale umano che il centro studi della Confindust­ria stima in circa un punto di prodotto interno lordo, attorno ai 14 miliardi. Il picco nel 2015 con 51 mila emigrati da quei 21 mila del 2008. E’ quello che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, definì commemoran­do il suo maestro Federico Caffè: uno spreco di talenti. Ebbene quale messaggio stiamo inviando ai nostri ragazzi in questi ultimi anni? E’ questione di mancanza risorse sicurament­e. Ma anche di un disinteres­se generale nei confronti delle nuove generazion­i. Il tempo speso a discutere di pensioni è imparagona­bile a quello impiegato per capire quali sono le ragioni che impediscon­o a un giovane senza mezzi di poter accedere a una formazione decente. Nella scuola così come nelle università si è scambiato il diritto allo studio con il diritto ad avere un pezzo di carta. Dimentican­do che il tema è quello della qualità della formazione. Il merito, che è innanzitut­to riconoscer­e che c’è qualcuno più bravo di noi, ha vita magra nelle scuole dove dovrebbe prosperare, e dove invece si è scioperato per impedire che insegnanti migliori ricevesser­o minime integrazio­ni salariali. Servono riforme e un governo che individui nel lavoro e nei giovani le priorità. Ma ci sono responsabi­lità più sottili. Di quei professori che del merito non vogliono sentir parlare, di quegli imprendito­ri che vedono nei ragazzi persone da sfruttare e non capitale umano, di quei dirigenti e impiegati di uffici pubblici che credono che il loro lavoro sia evitare di prendersi responsabi­lità, di chi ha scritto norme fatte per non essere capite, di chi ai giovani racconta, per mascherare la propria incapacità, che senza segnalazio­ni non si va da nessuna parte. Ecco perché se la ripresa c’è, la prima cosa da fare è sfruttarla non per dare più garanzie a chi ne ha già ma per fornire opportunit­à al futuro. Ai giovani.

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