Corriere della Sera

I trucchi

- Gabriele Principato

Puntare sugli stagionati per evitare il lattosio, godersi i freschi ma non più di due volte la settimana, non abbinarli ai salumi

mato, demonizzat­o, imitato. Il formaggio è oggi uno degli alimenti più controvers­i, sia lato produzione (latte crudo sì o latte crudo no?), sia lato consumo. Ovvero, fa ingrassare? Fa aumentare il colesterol­o? «È un prodotto ricco di calorie, intorno al quale però ci sono allarmismo e disinforma­zione», spiega Andrea Pezzana, direttore di dietetica e nutrizione clinica all’ospedale San Giovanni Bosco di Torino e responsabi­le Salute di Slow Food Italia. «Il formaggio ha delle proprietà nutriziona­li importanti perché è ricco di calcio e vitamina D, nonché di proteine di alto valore biologico». Certo, è un alimento che va consumato in maniera consapevol­e. «Come prima cosa non deve essere mangiato tutti i giorni — chiarisce il professore — ma non più di due volte la settimana in età adulta. Mentre adolescent­i e anziani possono consumarlo anche tre volte, perché le proteine e il complesso fosforocal­cio-vitamine che contiene agisce come un integrator­e naturale». L’abitudine, poi, di considerar­lo un fine pasto, in alternativ­a al dolce o alla frutta, è assolutame­nte sbagliata. «Si rischia di esagerare con le calorie — spiega Pezzana —, meglio mangiarlo come secondo piatto (senza affiancarc­i salumi però, ndr)». La porzione adeguata? «Se si tratta di prodotti freschi, come tomini o primo sale, la quantità giusta è di 150 grammi, mentre per gli stagionati 80 grammi sono abbastanza».

Orientarsi però tra le tante tipologie di formaggi che affollano i banchi dei supermerca­ti non è semplice. All’estero ci sono vari libri che guidano alla conoscenza dei prodotti caseari e al loro uso, fra i più recenti Milk Made (Hardie Grant) di Nick Haddow e The modern dairy (Kyle Books) di Annie Bell. In cui si legge anche delle diffuse versioni light, il cui contenuto di grassi è ridotto dal 30 al 50 percento: come crescenze e creme spalmabili. «Questi ultimi sono prodotti manipolati, quasi sempre industrial­i, contenenti spesso additivi e addensanti che non hanno nulla a che fare con i formaggi naturali», afferma Pezzana. Sono ormai comuni anche numerose tipologie vegan, realizzate senza latte e adatte a chi ha necessità di evitare il lattosio: ma senza bisogno di spingersi a queste versioni, chi ha queste esigenze può affidarsi a formaggi classici che ne sono privi, come parmigiano, grana padano, pecorino e altri stagionati a pasta dura.

Ma come scegliere un formaggio di qualità? «L’unica garanzia è comprare quelli delle malghe, così da essere sicuri che siano stati lavorati con latte di animali nutriti a erba da pascolo, così come scegliere quelli realizzati col latte crudo (un’informazio­ne che per legge, da qualche mese, deve essere indicata in etichetta, ndr)», spiega Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Proprio il latte crudo è il focus di «Cheese», la rassegna di Slow Food (con cinquantun­o nazioni coinvolte), che dal 18 settembre porterà a Bra, in provincia di Cuneo, e a Pollenzo, sede dell’Università di Scienze Gastronomi­che, oltre 350 espositori di tutto il mondo, tra pastori e selezionat­ori. Con uno spazio particolar­e dedicato ai formaggi naturali degli Stati Uniti, dove una battaglia di Slow Food, vent’anni fa, ha aiutato a far sì che la legge americana consentiss­e la produzione di caci stagionati almeno 60 giorni a latte crudo.

Questa edizione di «Cheese» chiude il cerchio aperto con la prima del 1997, dedicata anch’essa al latte crudo e seguita quattro anni più tardi da un manifesto in sua difesa. Un impegno importante, su cui c’è ancora da lavorare. «Parlare di latte crudo oggi, al posto di quello pastorizza­to che omogeneizz­a i sapori ma è il più usato, significa parlare della difesa della biodiversi­tà e delle produzioni artigianal­i messe a rischio da un mercato che non riconosce il valore del cibo ma solo il suo prezzo — spiega Petrini —, le aziende lattiero-casearie stanno diminuendo, ma aumentando come dimensione, e questo sta portando all’abbandono delle razze locali in favore di quelle più produttive, come ad allevament­i senza pascolo, in cui gli animali, nutriti con mangimi, danno un latte che non ha nulla a che fare col territorio: che viene pastorizza­to e reso un semi-lavorato». Questo avviene perché produrre a latte crudo richiede un forte dispendio di risorse: una stalla sempre pulita, ambiente di lavoro sterile e sicuro, animali trattati bene e alimentati con criterio. Ma come dimostrano recenti ricerche questo è uno degli aspetti più importanti nella qualità dei prodotti caseari. «I latti e i formaggi migliori sono quelli che provengono da animali nutriti a erba e senza mangimi», spiega Roberto Rubino, presidente dell’Associazio­ne nazionale formaggi sotto il cielo. «I risultati delle nostre analisi dicono che passando dalla stalla al pascolo, a parità di colesterol­o, il latte dei secondi ha una protezione dall’ossidazion­e anche venti volte superiore a quello degli stessi animali alimentati in stalla». E i piccoli produttori, che rispettano questi criteri, appaiono quasi degli eroi. Così, a raccontare le loro storie (58), ci ha pensato un libro, scritto da Piero Sardo, «Formaggi naturali» (Slow Food Editore) che sarà presentato durante l’evento di Bra.

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