«Nella spadelling age scrivere significa ridare valore al cibo»
IL DIBATTITO
Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul tema del foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì pubblichiamo il contributo di foodwriter italiani e stranieri che ci spiegano che cosa significa scrivere di cibo. Dopo Pollan, Hesser, Marchi, Wilson, Di Marco, Padovani, Tommasi, Attlee, Corradin, Ottaviano e Del Conte, proseguiamo con Segrè. etteralmente mi sento un foodwriter. Scrivo (molto) di cibo in effetti, anche se poco sui giornali. Del resto sono un professore. Ho dunque un titolo relativo per entrare nel dibattito avviato dal Corriere. Ma proprio per questo voglio dire, anzi scrivere, la mia. Perché gli articoli che si sono susseguiti mi hanno fatto riflettere e ricredere. Non tanto se si tratta di giornalismo di serie A o B. Quanto sull’importanza di trattare il cibo da tutte le prospettive, senza pregiudizi e snobismi da cibo-saggisti. Ad un’unica condizione: che il fine sia lo stesso. Mi spiego meglio. Anni fa ho iniziato a trattare del cibo partendo dalla sua negazione: lo spreco. Tanto cibo gettato via ancora buono da mangiare, per riprendere il saggio di Marvin Harris. Lo spreco alimentare enigma della nostra società (globale), allo stesso tempo povera e affamata ma anche bulimica e grassa. Scoperto il sistema per recuperare il cibo sprecato a favore di chi ha bisogno, attraverso il dono dell’eccesso a chi è carente, mi sono chiesto: perché la nostra società tratta il cibo così?
Mi si è aperto un mondo del cibo pieno di contraddizioni inaccettabili. Gli obesi sono quasi il doppio degli affamati; lo spreco potrebbe alimentare un terzo della popolazione mondiale; gran parte degli alimenti non riempiono le nostre pance ma i serbatoi delle macchine o gli stomaci dei ruminanti che poi noi mangiamo; nei Paesi che una volta si definivano ricchi si spende di più per non mangiare; impazzano le diete del senza e del no, facendo assumere al regime alimentare un nuovo significato di restrizione calorica; gli chef pluristellati spopolano nel grande spadellamento mediatico — siamo entrati nella spadelling age — oscurando chi il cibo lo produce: gli agricoltori; l’illegalità è la cifra che caratterizza parte sempre più importante delle filiere agroalimentari, andando a colpire gli anelli più deboli della catena: lavoratori, agricoltori, consumatori; osannati guru planetari pontificano sul diritto-al-cibo, gli organismi-geneticamentemodificati, la dieta-mediterranea, il km-zero e altri temi trattandoli come slogan, mentre richiederebbero almeno un minimo di competenza.
Il risultato, assai concreto, di questo stato confusionale — stridente perché si svolge nelle nostre bocche dove entrano gli alimenti ed escono le parole — è che non sappiamo più se il cibo ci nutre o ci consuma, se mangiamo per vivere, che è una questione fisiologica, o se viviamo per mangiare, che invece riguarda la psicologia. Siamo ben confusi per non dire squilibrati.
In realtà il cibo che mangiamo è strettamente legato alla nostra salute e a quella del (nostro) pianeta, alle nostre tradizioni e relazioni, alla nostra economia (spesa per chi consuma, reddito per chi produce). Il cibo è il nostro essere e il nostro sapere. Dobbiamo far evolvere il famoso detto di Ludwig Feuerbach, «sei ciò che mangi», passare al «mangia come sei o meglio come vuoi essere», per arrivare al «mangia come sai» ovvero all’educazione alimentare. Che vuole dire (ri)comprendere il valore del cibo. Cioè la risposta alla domanda iniziale: sprechiamo perché il cibo non ha più valore.
Vedete, a proposito di scrittura, basta sostituire una vocale (sei, sai) e un verbo (essere e sapere) e cambia la prospettiva. Anche per questo la scrittura, che è cultura, diventa importante, anzi fondamentale. Se questo è il fine — combattere la maleducazione alimentare — allora abbiamo bisogno di tutti: scrittori, saggisti, spadellatori, guru, nutrizionisti. Sarà la nostra food alliance (cado anch’io nell’anglicismo) contro la food rudness. Lunga vita ai foodwriters.