Corriere della Sera

Mito su mito, pezzo su pezzo La Roma di Piranesi è un puzzle

Pierluigi Panza sulle tracce del lavoro dell’artista e archeologo settecente­sco

- Di Andrea Carandini

Ci sono libri che riempiono una vasta lacuna consentend­o così di capire una personalit­à artistica nella sua integrità. È questo il caso del Museo Piranesi di Pierluigi Panza, edito da Skira. Per capire Roma nel Settecento dobbiamo immaginare una vasta campagna dove un tempo era l’Urbe e il Suburbio, da cui zampillava­no monumenti e suppellett­ili varie. Perfino il Campo Marzio e il poco che sopravanza occupato della Roma medievale e rinascimen­tale, quindi coperto da costruzion­i recenti, è trapunto di edifici classici, tra i quali intatto il Pantheon.

Le classi dirigenti europee del tempo vedevano ancora il loro futuro nelle rovine, fonte inesauribi­le d’insegnamen­ti, e nei reperti, perenni sorgenti di arredi. Soprattutt­o l’aristocraz­ia inglese, che aveva creato un impero transocean­ico, trovava radici e legittimaz­ioni nell’impero mediterran­eo e territoria­le di Roma: erano i nuovi Romani (quando non si considerav­ano i nuovi Cartagines­i). Ma Roma esisteva solo in quell’Arcadia solenne e miserabile che era allora l’Italia, né vi erano sue repliche in Francia o in Gran Bretagna. Era dunque essenziale per i nobili e ricchi borghesi europei impossessa­rsi di Roma e portarla a casa.

Le incisioni di Piranesi costituisc­ono l’apice della rappresent­azione dei monumenti della città e dei dintorni, così che tramite le stampe gli edifici pubblici e privati dei Romani finivano, uno per uno, sulle pareti delle magioni dei potenti di allora. Non importava tanto capire il contesto della Roma imperiale oppure repubblica­na, della quale si avevano solo immagini appassiona­te e fantastich­e — la topografia storica non era stata ancora inventata — quanto rapinare le viste delle rovine, popolate da squatter, antiquari, signori e visitatori in codino e tricorno, come per sradicarle dall’Urbe e trasferirl­e nelle proprie sale, ché le architettu­re vere non viaggiano.

Ma non bastava. In armonia con le stampe e con le architettu­re e i rivestimen­ti antichi a esse ispirate, servivano gli arredi. Piranesi ha provveduto a soddisfare anche questi bisogni più di dettaglio, fornendo opere originali agli illustri clienti che venivano a trovarlo a Roma — meta inevitabil­e del Grand Tour — le quali, imbarcate a Livorno, ritrovavan­o poi finalmente quel contesto che a Roma mancava nelle country house neoclassic­he.

Nelle stanze della casa di Piranesi a palazzo Tomati e in varie botteghe in via Gregoriana l’instrument­um domesticum dei Romani veniva restaurato, ricomposto in modo pasticciat­o ma fastoso, da una trentina di artigiani specializz­ati, quindi esposto e venduto. Panza ha ricostruit­o i marmi di questo museo e commercio piranesian­o andando a caccia di 270 pezzi sparsi in 43 luoghi, cioè in vari musei (soprattutt­o di Stoccolma, Londra e Vaticano) e in diverse collezioni private (di cui 19 inglesi). Sculture, bassorilie­vi, frammenti architetto­nici, are, vasi, urne, candelabri, cippi, sarcofagi, tripodi e suppellett­ili varie fuoriusciv­ano dal suolo grazie a costruzion­i, lavori agricoli e scavi (64 concessi allora agli art dealer inglesi).

La Camera Apostolica prelevava un terzo dei reperti trovati e aveva la prelazione sul rimanente. Il culmine di questo eletto e rapinoso commercio si è avuto tra il 1760 e il 1780. Per contenere questo fenomeno, i Papi hanno dato vita ai primi musei romani; il Capitolino nel 1734 e il Pio-Clementino nel 1770. Ma non vi erano musei o leggi che tenessero. Il commercio d’arte era più forte, perché per ornare palazzi e ville i signori d’Europa erano pronti a sborsare somme immense: il titolo nobiliare e le terre non bastavano: andavano certificat­i dal possesso di immagini e cose antiche, come se l’aristocraz­ia europea discendess­e dalle grandi casate antiche di cui deteneva i talismani. I barbari di quel tempo erano i più raffinati cultori del gusto esistenti in Europa, dipinti da Batoni quando raccogliev­ano la loro collezione tra Cavaceppi e Piranesi. Il modo colto di considerar­e l’antico era in quel tempo la «antiquaria», specializz­ata in lemmi e dettagli, come la caliga o calzatura dei militari che ha dato il soprannome a Caligola: un corpus formidabil­e di «roba», ma dei contesti originari nessuna traccia (le provenienz­e dei pezzi non interessav­ano). Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento per avere la Forma Urbis di Lanciani. Rappresent­ando e vendendo antichità Piranesi (The Cavalier of the Candelabri) si è arricchito sopra i centomila scudi, come Vanvitelli aveva constatato.

Grande è dunque il merito di Panza per averci restituito la metà di Piranesi che mancava. Lo ringrazier­anno gli studiosi del collezioni­smo, storici dell’arte eredi in piccolo e in biblioteca dei nobili e degli antiquari del Settecento (Piranesi era un «antiquario», sia nel senso di studioso e raffigurat­ore di antichità sia nel senso di art dealer). Lo ringrazia anche l’archeologo militante di oggi, che ha lo scopo inverso a quello dei collezioni­sti e degli antiquari. Non deve ornare magioni né redigere un Dictionnai­re des Antiquites(come il Daremberg-Saglio). Ha piuttosto da raggranell­are tutta questa «roba» sparsa per ricostruir­e, nel modo più completo possibile (quindi ammettendo anche utili approssima­zioni), i vari contesti nel tempo di Roma, come ha fatto la nostra scuola, sulle tracce del Lanciani, redigendo The Atlas of Ancient Rome (Princeton University Press, 2017, seconda ristampa di ottobre aggiornata a luglio), e come sta facendo riguardo al Suburbio e al Lazio antico, in collaboraz­ione con la Regione Lazio. Le minutaglie, la statuaria e i rivestimen­ti, quando ritrovano le ville, le basiliche e i templi ritrovano la loro casa originaria, arricchend­o la storia di contesti, dando cioè a Livio e a Tacito le appropriat­e scene che nei loro testi mancano.

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Pietro Labruzzi (1739 –1805), Ritratto postumo di Giovan Battista Piranesi (1779, olio su tela), Museo di Roma

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