Questi siamo ma le sconfitte sono figlie di un sistema
Hanno dato tutto. Ma hanno perso ai quarti. Come 2 anni fa, come 4 anni fa. Perché l’impegno degli azzurri non è (mai stato) in discussione, ma il talento tecnico e fisico stanno altrove. In Serbia, per esempio, dove hanno rinunciato senza lamentarsi a 7 giocatori infortunati (tra cui il miglior play d’Europa) per poi arrivare a giocarsi stasera un posto in finale, non prima di aver massacrato l’Italia in difesa, in attacco e a rimbalzo. Hanno dato tutto, gli azzurri, ma alla fine questi sono, come 2 anni fa, come 4 anni fa. E, purtroppo, come al Preolimpico di Torino. Il problema è che il futuro, se possibile, è pure peggio del presente: non è bastato nascondere le macchie sul pavimento coprendole con il tappeto pregiato di un allenatore di valore e di carisma come Ettore Messina. Le macchie rimangono. Così come a posteriori è stato ingiusto infierire sul predecessore Simone Pianigiani. Ora la palla passa a Romeo Sacchetti, leggenda del nostro basket, tecnico non esattamente in linea con chi è venuto prima di lui. Gli si può solo dire auguri. I giocatori questi sono e questi restano. Una Nazionale orgogliosa, questo sì, ma figlia di un movimento che non produce più nulla, di un campionato di retrovia, di una federazione che per ammissione del suo presidente Petrucci i soldi li avrebbe anche ma li spende male. Come ha sottolineato perfidamente Sasha Danilovic, numero 1 del basket serbo: «Io gestisco un budget di 2 milioni e mezzo di euro, la federazione italiana di 41». Visti i risultati, complimenti. A lui e alla Fip. La realtà è che se non si programma non si va da nessuna parte. La Germania ci ha battuto con una squadra dall’età media di 24 anni, costruita con un lavoro capillare di un movimento in crescita, e per il prossimo decennio la vedremo da lontano. In Italia invece che occuparsi della base e dello sviluppo del basket, si pensa alla prossima rielezione, agli amici, agli amici degli amici e ai nemici, una rivoluzione all’anno per dare l’idea di grande attivismo, tanti slogan. Poi si esce ai quarti, ma a testa alta, per carità! «A volte si vince, a volte si perde», chiosa Gianni Petrucci: per una Nazionale che ha visto l’ultima medaglia ad Atene 2004, viene da chiedersi quali sono le volte in cui si vince.