Bakhita, schiava che fu riscattata dagli italiani La sua storia è un best seller
Uno dei romanzi di maggiore successo della rentrée litteraire, vincitore ieri del Prix Fnac, è «Bakhita» di Véronique Olmi, che fa scoprire ai francesi la storia meravigliosa (in italiano nel testo) di «Madre Moretta», schiava e poi santa, nata in Darfur nel 1869 e morta a Schio (Vicenza) dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
«Mi sono avvicinata alla storia di Bakhita per caso, entrando un giorno nella chiesa di Langeais, nella Loira, dove ho una casa — dice la scrittrice —. Ho visto il suo ritratto e sono rimasta completamente rapita da quello sguardo. C’erano poche notizie, stavo scrivendo un altro libro ma non ho potuto fare altro che accantonarlo e dedicarmi a scoprire tutto di quella donna».
Bakhita è il nome che le venne dato per beffa dopo che due uomini andarono a rapirla nel villaggio di Olgassa, nel Darfur, quando lei aveva appena sette anni. Non si è mai più ricordata il suo nome vero, come non aveva memoria della vita che ha preceduto la schiavitù. Bakhita, «Fortunata», l’hanno chiamata i trafficanti di uomini. Al grande mercato di El Obeid venne comprata da un ricco arabo che la portò a casa come un trofeo regalandola alle figlie e al figlio 14enne Samir.
Le ragazze mostrano alle amiche questa schiava così bella «che sa fare tante cose», come imitare le scimmie e prendere con la bocca i frutti lanciati in aria. Samir la fa entrare nel suo harem, e picchia «Fortunata» fino a farla sanguinare.
Il libro di Véronique Olmi non è una biografia, «le date sono corrette, gli eventi e i luoghi raccontati sono veri ma si tratta di un romanzo perché quel che mi interessava era raccontare l’effetto che la storia
Il libro sulla storia della santa sudanese «Bakhita» ha vinto il premio Fnac 2017 ed è tra i favoriti al prossimo Goncourt
● L’autrice è la francese Véronique Olmi 55 anni, drammaturga di Bakhita ha avuto su di me. Ponendomi continuamente la domanda, “come è possibile?”. Come è possibile che una bambina sottoposta a sofferenze simili, che non parlava bene perché mescolava più lingue, che aveva cancellato la sua infanzia, sia vissuta poi cercando di aiutare le persone a lei vicine fino a essere proclamata santa da Giovanni Paolo II?».
Dopo l’harem Bakhita venne venduta a un generale turco che permise alla moglie di tatuarla e scarificarla, torturandola con il sale sulle ferite prima di rivenderla. Ma la quinta volta che la ragazza ormai quattordicenne venne ceduta, al console italiano a Karthoum, la sua vita finalmente cambiò.
Callisto Legnani ordinò ai servitori di lavarla e, soprattutto, per la prima volta, vestirla. «La domestica Aïcha l’aiuta a uscire dalla vasca e le porge una lunga tunica bianca percorsa da fili rossi e perle. Amava il dialetto Un ritratto di Suor Giuseppina Bakhita che, a Schio, amava esprimersi in dialetto veneto. Alcune sue espressioni sono diventate famose. Parlava di Dio come el Parón: «Quanto bon che xé el Parón, come se fa a no vołerghe ben al Parón» Bakhita non capisce e non si muove, restano un momento a guardarsi, la tunica bianca tra di loro. (..) Dal tessuto bianco non usciva che il nero del suo volto, come scolpito dalla luce, e miracolosamente non scarificato. Tutti i marchi d’infamia erano nascosti, la tunica era come un velo di pudore e per
la prima volta dal suo rapimento lei ha sentito che qualcosa le apparteneva. Il suo corpo, oggetto di profitti e di tante violenze, le veniva restituito, dissimulato agli altri».
La vergogna permanente di vivere nuda tra persone vestite finì. Il console la trattò per la prima volta da essere umano e la portò con sé in Italia. Bakhita lavorò poi a Venezia per Augusto Michieli che le diede un’educazione religiosa. Nel 1890 Bakhita fu battezzata e cresimata dal patriarca di Venezia ed entrò poi nel convento di Schio dove la chiamavano «Madre Moretta».
La ragazza venuta dal Sudan del Sud parlava veneto e si stupiva dell’interesse attorno a lei: Tuti i vołe védarme: son propio na bestia rara! (tutti vogliono vedermi). Nell’Italia del Ventennio, tra curiosità e paternalismo, Madre Moretta cominciò a essere venerata per la dedizione ai bambini e la bontà a prova di torture. Morì nel 1947, a 78 anni. Papa Wojtyla la fece beata nel 1992 e santa nel 2000. «Aveva il senso di colpa della sopravvissuta — dice Olmi —. Anche per questo, in Veneto per cinquant’anni, si è occupata dei bambini senza genitori, come lei».