E Montefoschi fa l’autopsia al corpo della borghesia romana
Il corpo, con cui Montefoschi torna alla narrativa più tradizionale dopo il reportage indiano consegnatoci qualche mese addietro ne Il buio dell’India (Guanda, 2016) è, fin dalla prima pagina, un romanzo di dettagli, di piccoli oggetti che, a dispetto e in forza della loro insignificanza, caricano la realtà narrata di senso (la connotano, si sarebbe detto in anni non troppo lontani): «Giovanni Dalmati fece un cenno a Hildegard, la più giovane delle figlie di Max, il padrone del rifugio; aspettò che depositasse i boccali schiumanti di birra, le limonate e gli apfelschorle sul tavolo d’angolo della terrazza, occupato da un gruppo di ragazze e ragazzi austriaci appena smontati delle mountain bike, sudati e assetatissimi; pagò il suo piatto di uova, speck e patate, il quarto di vino e il caffè; s’infilò lo zaino».
Poche pagine oltre lo scenario muta radicalmente e ritroviamo Giovanni, avvocato sessantenne, muoversi nei quartieri romani compresi tra via Farnese e Vigna Clara: un bicchiere di Campari in piazza del Popolo, la sabbia che scivola sul pavimento da una piega dei pantaloni, un particolare della Fontana delle Tartarughe sono al tempo stesso effetti di realtà ma anche segni lampanti di debolezza del realismo, piccoli scricchiolii nella sua impalcatura. Ciascuno di essi infatti è un indizio che Roma (la Roma messa in scena da Montefoschi) esiste, è là di fronte a noi disponibile e pienamente dispiegata. Ma, paradossalmente, ogni dettaglio contiene anche una opacità, una «allucinazione» come l’avrebbe chiamata Roland Barthes, che allontana la realtà (qualsiasi cosa essa sia) nel momento stesso in cui vi allude, e ci costringe a interrogarci su di essa.
Ambientato tra l’Alto Adige e Roma, Il corpo pone al centro della narrazione due fratelli, Giovanni e il più giovane Andrea, giornalista tormentato e passivo, entrambi innamorati di Ilaria, commessa quarantenne legata sentimentalmente ad Andrea. Da questa struttura narrativa così consueta, Montefoschi trae però un racconto che ci induce a riflettere su almeno due elementi. Il corpo del titolo è in effetti, e senza dubbio, quello di Ilaria, al centro delle ossessioni di Giovanni; ma è anche il corpo malato dello stesso Giovanni e dell’amica di famiglia Ada; è, infine, il corpo indolente di Andrea, afflitto da una malattia che l’autore non nomina mai e che porta i segni piuttosto evidenti della depressione. Una depressione descritta, o meglio allusa, per mezzo dei silenzi e delle malinconie quasi düreriane di Andrea e di quelle ancora più cupe del fratello. Anche Giovanni è infatti tormentato da una profonda insofferenza per la quotidianità famigliare, per il tempo che passa, per le stesse attenzioni della moglie: Serena nel corso del romanzo ci viene presentata come vera e propria vestale del focolare domestico, forte di una premura che non sconfina mai nell’ingenuità, e tuttavia incapace di ribellarsi alla monotonia delle settimane e dei giorni e dunque di arginare l’allontanamento progressivo di Giovanni.
Ma il corpo narrato da Montefoschi è anche quello di una borghesia sfaldata, che non è più riferimento di nulla, neanche di se stessa: che cosa resta della Roma che cena nei locali del ghetto e passeggia la domenica tra il Pincio e il Parco dei Daini? Tutto il sistema di valori della borghesia tradizionale (l’utile, la serietà, l’efficienza, il benessere, secondo una serie tipica del romanzo occidentale fin dal Robinson Crusoe) è frantumato: la stessa unità famigliare è più solida nella generazione del figlio di Giovanni che non in quella matura che tradizionalmente avrebbe dovuto farsene carico.
Se è vero che lo stile allude a un preciso modo di vedere le cose, non è semplice questione tecnica ma «qualità della visione», allora i dialoghi tra Giovanni e la moglie Serena con la loro laconica ripetitività, con il loro vuoto di senso, sono lo specchio della crisi irresolubile in cui questi personaggi si dibattono. In effetti, se si esclude Bruno, l’amico di Giovanni che illumina il libro con la sua consapevolezza e lucidità, gli altri perso- naggi sono gravati dal peso della loro incompiutezza, da una «sensazione di sfinimento fisico e di apprensione senza oggetto» che li perseguita quotidianamente e impedisce loro di «trovare un appiglio […] per combattere la pena» che li tortura.
Eppure, nonostante tutto, la scrittura di Giorgio Montefoschi conferma quella sostanziale fiducia nella narrazione a cui ci aveva abituato nelle sue prove precedenti: il romanzo, zuppa di materiali inconditi capace di accogliere al suo interno alcunché di ricco e strano, estende e restringe di volta in volta i suoi confini, qui singolarmente coincidenti con quelli slabbrati, caotici della capitale, con le palazzine del Lungotevere Flaminio e di via Saliceto, «coraggiose sentinelle di uno sconosciuto futuro e, insieme, lapidi amorevoli, eterne».
Lo stile I dettagli, i piccoli oggetti caricano la realtà narrata di senso e costringono il lettore a interrogarsi