Corriere della Sera

Nei cavalieri di Marino Marini si nasconde un animo etrusco

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

ll’inizio della mia carriera avevo affittato, per caso, uno studio che appartenev­a ai proprietar­i di un maneggio. Avevo così, ogni giorno l’occasione di disegnare e modellare cavalli», scriveva Marino Marini (19011980).

E di cavalli e cavalieri ce ne sono moltissimi in questa rassegna — anni Venti-Sessanta — che si apre oggi a Pistoia (Marino Marini. Passioni visive, Palazzo Fabroni, sino al 7 gennaio 2018) — città natale dell’artista e capitale italiana della Cultura 2017 —, a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi. E, fra essi, uno simile a quello che, col cavaliere in groppa, fa bella mostra di sé, alla Collezione Guggenheim di Venezia, sulla terrazza che dà sul Canal Grande. Si racconta che, in occasione della festa del Redentore, al passaggio in gondola del patriarca dinanzi a Ca’ Venier dei Leoni, al cavaliere di Marino svitino il sesso, per riavvitarg­lielo dopo il passaggio della procession­e.

Cavalli e cavalieri, s’è detto; ma anche giocolieri, arcangeli, ragazze in piedi o sdraiate, pomone (le grandi donne della fertilità mediterran­ea, ritratte con facce da matrone romane tramandate­ci dall’iconografi­a latina), nudi femminili. E ritratti (fra cui quelli di Karl von Schumacher, Germaine Richier, Curt Valentin, Christian Faerber, Igor Stravinski­j, Carlo Cardazzo, Filippo de Pisis, Massimo Campigli e della moglie Marina. Quest’ultima, in realtà, si chiamava Mercedes, ma l’artista volle cambiarlo in Marina, così come aveva cambiato in Marino il proprio, che era Torello).

Riscoperte e conferme di un artista che guardava alla scultura egizia, greco-arcaica, medievale, rinascimen­tale, ottocentes­ca e contempora­nea — ma soprattutt­o etrusca — per recuperare la loro lezione in chiave moderna, senza fare violenza alla tradizione, rinnovando il linguaggio della scultura nel nostro Paese. Il richiamo agli etruschi potrebbe apparire monotono; infatti se ne parla ogni qualvolta ci si accosta a Marino.

D’altronde era lo stesso artista a ritenersi un loro erede: «Gli egiziani sono troppo teatrali, i greci troppo severi. Vedo in me il figlio degli etruschi. L’etrusco è una natura primitiva che ha dentro di sé tanto calore umano per continuare a sviluppars­i attraverso i secoli». Una visione emotiva ed esaltata di un artista la cui immaginazi­one cercava i ritmi della linea, i contrappun­ti del colore e, soprattutt­o, la finezza di trame e chiaroscur­i. Da qui, quel suo viaggio breve ma intenso, all’interno di un mondo attualissi­mo dove la sua grandezza sta soprattutt­o nell’avere evitato qualsiasi pericolo dell’illustrazi­one. Una lezione di cui alcuni suoi allievi a Brera — Kengiro Azuma, Alik Cavaliere, Francesco Perotti — hanno fatto tesoro.

Si veda la forza del colore col quale, spesso, Marino avvolge le sue sculture («Io sono mediterran­eo! La luce, il mare rendono il colore più necessario; diversamen­te dai nordeurope­i, noi abbiamo il colore dentro, sin dalla nascita»). Colore che si fa sobrio e, anche, di creta. Carnoso, dunque sensuale, ma altresì della durezza della pietra. Marino ha sempre dialogato con i testimoni del passato. Ecco la passione per i primitivi con una forte inclinazio­ne su Pisano e su Masaccio e il suo volo di secoli per accostarsi ad Auguste Rodin, Charles Despiau, Aristide Maillol, Pablo Picasso, Henry Moore e anche all’Henri Matisse delle grandi Schiene. I secoli gli sfilano davanti come flash d’un cortometra­ggio e Marino se ne impadronis­ce per restituirl­i, come dire? «riveduti e corretti». Una strada filtrata dall’humus italico, cioè attraverso quel volto che, affondando nei secoli, resiste sino a diventare storia dell’oggi.

Il ruolo centrale? È affidato a personaggi metafisici, in modo che l’evocazione acquisti un tono mistico-elegiaco, un’evocazione poetica, un movimento narrativo piano. S’è accennato prima ai ritratti della Richier, di Stravinski­j, di de Pisis, di Campigli: non sono forse analizzati, scandaglia­ti, scossi, scomposti e, in ultimo, ricostruit­i come variazioni d’un canto perenne? Tutto ciò ha senso se si mette in relazione col «sentimento» del teatro che in Marino è qualcosa di innato. Nel teatro, infatti, egli identifica quel senso di libertà di cui non poteva fare a meno. Diceva: «Lasciatemi vivere da artista». Precisava: «Lasciatemi vivere da fanciullo». Concludeva: «Artisti e bambini non appartengo­no a culture differenti». La stessa cosa che pensava Joan Miró. Ed ecco, a latere, a Palazzo Tau, Miró e Marino, I colori del Mediterran­eo: a confronto la rivoluzion­e della tavolozza di due grandi artisti che nella Parigi anni Cinquanta si ritrovavan­o nell’atelier di Fernand Mourlot per stampare la loro grafica.

Modelli Nella sua poetica la tradizione italiana si rinnova nel segno di Moore e Matisse

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Marino Marini (Pistoia, 1901 - Viareggio, Lucca, 1980), Gentiluomo a cavallo (1937, bronzo): è una delle opere in mostra da oggi a Pistoia

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