Nei cavalieri di Marino Marini si nasconde un animo etrusco
ll’inizio della mia carriera avevo affittato, per caso, uno studio che apparteneva ai proprietari di un maneggio. Avevo così, ogni giorno l’occasione di disegnare e modellare cavalli», scriveva Marino Marini (19011980).
E di cavalli e cavalieri ce ne sono moltissimi in questa rassegna — anni Venti-Sessanta — che si apre oggi a Pistoia (Marino Marini. Passioni visive, Palazzo Fabroni, sino al 7 gennaio 2018) — città natale dell’artista e capitale italiana della Cultura 2017 —, a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi. E, fra essi, uno simile a quello che, col cavaliere in groppa, fa bella mostra di sé, alla Collezione Guggenheim di Venezia, sulla terrazza che dà sul Canal Grande. Si racconta che, in occasione della festa del Redentore, al passaggio in gondola del patriarca dinanzi a Ca’ Venier dei Leoni, al cavaliere di Marino svitino il sesso, per riavvitarglielo dopo il passaggio della processione.
Cavalli e cavalieri, s’è detto; ma anche giocolieri, arcangeli, ragazze in piedi o sdraiate, pomone (le grandi donne della fertilità mediterranea, ritratte con facce da matrone romane tramandateci dall’iconografia latina), nudi femminili. E ritratti (fra cui quelli di Karl von Schumacher, Germaine Richier, Curt Valentin, Christian Faerber, Igor Stravinskij, Carlo Cardazzo, Filippo de Pisis, Massimo Campigli e della moglie Marina. Quest’ultima, in realtà, si chiamava Mercedes, ma l’artista volle cambiarlo in Marina, così come aveva cambiato in Marino il proprio, che era Torello).
Riscoperte e conferme di un artista che guardava alla scultura egizia, greco-arcaica, medievale, rinascimentale, ottocentesca e contemporanea — ma soprattutto etrusca — per recuperare la loro lezione in chiave moderna, senza fare violenza alla tradizione, rinnovando il linguaggio della scultura nel nostro Paese. Il richiamo agli etruschi potrebbe apparire monotono; infatti se ne parla ogni qualvolta ci si accosta a Marino.
D’altronde era lo stesso artista a ritenersi un loro erede: «Gli egiziani sono troppo teatrali, i greci troppo severi. Vedo in me il figlio degli etruschi. L’etrusco è una natura primitiva che ha dentro di sé tanto calore umano per continuare a svilupparsi attraverso i secoli». Una visione emotiva ed esaltata di un artista la cui immaginazione cercava i ritmi della linea, i contrappunti del colore e, soprattutto, la finezza di trame e chiaroscuri. Da qui, quel suo viaggio breve ma intenso, all’interno di un mondo attualissimo dove la sua grandezza sta soprattutto nell’avere evitato qualsiasi pericolo dell’illustrazione. Una lezione di cui alcuni suoi allievi a Brera — Kengiro Azuma, Alik Cavaliere, Francesco Perotti — hanno fatto tesoro.
Si veda la forza del colore col quale, spesso, Marino avvolge le sue sculture («Io sono mediterraneo! La luce, il mare rendono il colore più necessario; diversamente dai nordeuropei, noi abbiamo il colore dentro, sin dalla nascita»). Colore che si fa sobrio e, anche, di creta. Carnoso, dunque sensuale, ma altresì della durezza della pietra. Marino ha sempre dialogato con i testimoni del passato. Ecco la passione per i primitivi con una forte inclinazione su Pisano e su Masaccio e il suo volo di secoli per accostarsi ad Auguste Rodin, Charles Despiau, Aristide Maillol, Pablo Picasso, Henry Moore e anche all’Henri Matisse delle grandi Schiene. I secoli gli sfilano davanti come flash d’un cortometraggio e Marino se ne impadronisce per restituirli, come dire? «riveduti e corretti». Una strada filtrata dall’humus italico, cioè attraverso quel volto che, affondando nei secoli, resiste sino a diventare storia dell’oggi.
Il ruolo centrale? È affidato a personaggi metafisici, in modo che l’evocazione acquisti un tono mistico-elegiaco, un’evocazione poetica, un movimento narrativo piano. S’è accennato prima ai ritratti della Richier, di Stravinskij, di de Pisis, di Campigli: non sono forse analizzati, scandagliati, scossi, scomposti e, in ultimo, ricostruiti come variazioni d’un canto perenne? Tutto ciò ha senso se si mette in relazione col «sentimento» del teatro che in Marino è qualcosa di innato. Nel teatro, infatti, egli identifica quel senso di libertà di cui non poteva fare a meno. Diceva: «Lasciatemi vivere da artista». Precisava: «Lasciatemi vivere da fanciullo». Concludeva: «Artisti e bambini non appartengono a culture differenti». La stessa cosa che pensava Joan Miró. Ed ecco, a latere, a Palazzo Tau, Miró e Marino, I colori del Mediterraneo: a confronto la rivoluzione della tavolozza di due grandi artisti che nella Parigi anni Cinquanta si ritrovavano nell’atelier di Fernand Mourlot per stampare la loro grafica.
Modelli Nella sua poetica la tradizione italiana si rinnova nel segno di Moore e Matisse