«L’effetto che fa», in scena il delitto Varani
Il regista Franci: ho conosciuto uno degli assassini, cerco di capire il perché di tanto orrore
«Me chiamo Luca, c’ho ventitré anni, vivo a La Storta, periferia nord de Roma. So’ stato adottato quando c’avevo quattro mesi da un orfanatrofio di Sarajevo. So’ fiio de’ guera». Il Luca che parla è il ragazzo di 23 anni massacrato da suoi coetanei in un appartamento dell’hinterland romano: è la notte tra il 4 e il 5 marzo 2016, Luca Varani, attirato da soldi per prestazioni sessuali e cocaina, viene torturato da Manuel Foffo e Marco Prato, poi lasciato morire lentamente per «vedere l’effetto che fa».
Il 31 ottobre sul nuovo palcoscenico della capitale, l’OffOff Theatre creato da Silvano Spada nella storica via Giulia, debutta uno spettacolo che ripercorre l’atroce fatto di cronaca: L’effetto che fa, scritto e diretto da Giovanni Franci, interpretato da Riccardo Pieretti (Varani), Valerio Di Benedetto (Foffo), Fabio Vasco (Prato), vittima e carnefici.
«Che motivo c’è di raccontare una storia come questa? — esordisce l’autore trentenne —. Nessuno ancora adesso è riuscito a capirla e finché una Finzione Da sinistra: Fabio Vasco nei panni di Marco Prato; Riccardo Pieretti (Luca Varani); Valerio Di Benedetto (Manuel Foffo) storia non si capisce non la si può nemmeno archiviare. Quando ho appreso questa notizia, sono stato assalito da un malessere di cui non mi sono liberato. Gli assassini sono simili a me per estrazione sociale, vivono nella mia stessa città, frequentiamo gli stessi ambienti: ho conosciuto di vista Prato, faceva il pr e mandava inviti anche a me delle feste in discoteca. Mi sono posto delle domande, cerco di darmi delle risposte».
Anche a Di Benedetto (32 anni) e Pieretti (27) è capitato di incontrare il pr in discoteca. Dice il primo: «Ho conosciuto anche altri ragazzi che possono somigliare ai due carnefici. Mi sono chiesto dov’è il limite della ricerca di onnipotenza, il volersi sentire Dio, diritto di vita e di morte». Aggiunge il secondo: «Un conto è leggere la notizia sul giornale, un conto è rendersi conto di aver sfiorato l’assassino: una persona che avrei potuto frequentare». Fabio Vasco invece non frequenta discoteche: «Sono all’opposto, niente vita notturna, per me più difficile entrare nel personaggio: cosa avviene nella testa di chi, per divertirsi, compie atti scellerati?».
Un fatto di cronaca nera, per diventare teatro, deve assurgere a metafora: «È vero — concorda Franci — e attraverso questo testo voglio esprimere il nuovo nichilismo, l’anarchia del male che pervade l’animo di molti giovani di oggi: totale smarrimento nel vuoto virtuale di internet e di certi film e fiction che esaltano modelli negativi, disfacimento psicosociale, sesso nevrotico, consumo di stupefacenti. I loro valori? Sei cool se hai soldi e cocaina: sono mine pronte a esplodere». Interviene Di Benedetto: «Provo orrore e pietà, non capisco su quale binario possano viaggiare questi ragazzi della mia stessa età. Il mio personaggio ha affermato: ho ucciso Varani per vendicarmi di mio padre. Un alibi troppo comodo». Osserva Vasco: «Un alibi finto: tutti abbiamo avuto rapporti conflittuali con i genitori. È come se questi atteggiamenti estremi fossero diventati per loro la normalità: il mio personaggio si è suicidato in carcere».
Nella pièce, molto dura anche nel linguaggio, i personaggi sono chiamati con i veri nomi, evitando i cognomi: e se i genitori venissero ad assistere alla rappresentazione? «Mi sono posto il problema — risponde l’autore — e sconsiglio al padre e madre della vittima di venire a teatro, potrebbe essere molto doloroso per loro». Conclude Pieretti: «Impersono Luca con il massimo rispetto, la sua vicenda è un monito per tutti: occorre dare più senso alla vita. Ci guarderemo allo specchio vedendo quello che siamo, e non sarà un bello spettacolo».