Corriere della Sera

La verità sulle tasse di Facebook e Google

Le stime sui ricavi italiani dei due colossi internet e il confronto con le tasse pagate

- di Milena Gabanelli

Non diteci più che abbasseret­e le tasse, perché fino a quando non troverete il modo di farle pagare equamente a tutti, non ci crediamo. A partire da quelli che evadono violando le leggi, ai colossi del web che le leggi le dettano: «metto la sede nel tuo paese se non mi fai pagare le tasse». Mentre negli altri Stati dove operano e fanno utili è impossibil­e stabilire con certezza i loro ricavi, perché è stata ingegneriz­zata la filiera dell’ «immaterial­ità». Per dare un’idea: un rapporto del Parlamento Europeo ha valutato che i paesi membri tra il 2013 e il 2015 hanno perso gettito per 5,4 miliardi di euro solo per i mancati versamenti da parte di Google e Facebook. I ministri delle finanze si stanno dannando per trovare una soluzione, ma per il momento sono d’accordo solo sul titolo della discussion­e: web tax. Il ministro delle finanze dell’Estonia ha proposto di valutare la tassa sulla base del numero di clienti residenti in quel paese e che utilizzano quel servizio. Non è una cattiva idea visto che è il solo dato certo. Dai dati Agcom, in Italia Google è stabile al primo posto con 29.653.000 utenti unici, vale a dire il 96% della popolazion­e che naviga in Internet, per un tempo medio mensile di 6 0re e 44 minuti. Nel mondo dei social media, Facebook ha l’86% del mercato, con 26.474.000 utenti unici che lo utilizzano a persona per 24 ore e 22 minuti al mese. L’orientamen­to sembra però essere quello di individuar­e una tassa fissa sul fatturato, cioè sul dato più misterioso.

Cominciamo a fare due conti in Italia, che è anche il primo paese al mondo ad aver fatto scucire a Google 306 milioni di euro per gli utili prodotti in Italia dal 2002 al 2015. Un miracolo, ma sono noccioline. Invece sul 2016, con un mercato in costante crescita (12% nell’ultimo anno), quanto dichiarerà Google? L’ultimo dato disponibil­e riportato da fonti aperte, e relativo al fatturato italiano del 2015 è di 65 milioni di euro, con imposte pagate per quasi 3 milioni. Probabilme­nte è il volume d’affari «tracciato», ovvero quello che proviene dai piccoli inserzioni­sti che pagano con carta di credito: pizzerie, ristoranti, commercian­ti. Le grandi aziende invece, che sul web stanno investendo sempre di più, pagano con bonifico a Dublino, ma «quanto» Google incassa non lo dice a nessuno, per cui all’Italia nulla è dovuto. In assenza di dati certi l’Agenzia delle Entrate, dal 2016 in poi, dovrà usare la sfera di cristallo, se non cambiano le regole europee.

Per rendere più trasparent­e il mercato e aiutarlo ad orientarsi l’Upa (Utenti Pubblicità Associati) ha pubblicato il Libro Bianco con l’analisi dei dati forniti da Nielsen e dal Politecnic­o di Milano. La ricerca si basa sugli investimen­ti dichiarati da un campione di 160 aziende a rotazione. I due studi arrivano, con uno scarto marginale, alle stesse conclusion­i. Se dalla stima totale si cerca di attribuire a Google, per la sola raccolta pubblicita­ria digitale (motori di ricerca, youtube, display, classified, ecc) un importo, si arriva ad 1 miliardo e 230 milioni. Mentre la stima per il 2017 arriva attorno ad 1 miliardo e 400 milioni. Siamo ben lontani dai 65 milioni dichiarati. Facebook invece è in discussion­e violenta con l’Agenzia delle Entrate. Negli ultimi 2 anni ha dichiarato ricavi che non arrivano a 8 milioni di euro e versato poco più di 200.000 euro di imposte (sempre un dato da fonti aperti e non risulta smentito). Sempre dalle stime pubblicate sul Libro Bianco, estraendo il dato che riguarda la parte social, si può quantifica­re in 400 milioni di euro i ricavi di Facebook per il 2017. Un «sommerso» che si fabbrica sempre nello stesso modo: all’azienda italiana che compra degli spazi su Fb gli vengono fatturati dall’estero, legittimam­ente, per i trattati di libera circolazio­ne. Poi si difendono dicendo che non possono dare i dati perché quegli spazi comprati dall’azienda italiana non vanno solo sul mercato italiano. Quanto va sul mercato italiano e in lingua italiana lo sanno benissimo, e con un po’ di intelligen­ce qualche dato lo abbiamo scoperto anche noi. Un paio di esempi: su Youtube (Google) nel 2016 Barilla ha investito 1, 9 milioni di euro, CocaCola Italia 6 milioni.

L’Agcom rileva possibili distorsion­i nel mercato della pubblicità online, e scrive «Google e Facebook non partecipan­o ai tavoli tecnici dai

Su Youtube (Google) nel 2016 Barilla ha investito 1,9 milioni di euro, Coca-Cola Italia 6 milioni I giganti del web non contribuis­cono alle politiche economiche degli Stati in cui fanno profitti

quali discendono le decisioni, non consentono a nessun altro sistema di web analytics di tracciare i siti di loro proprietà .... l’unico modo per misurare le loro performanc­e è quello di utilizzare le informazio­ni fornite dai loro sistemi di cui non si conoscono le metodologi­e di rilevazion­e e i processi di elaborazio­ne delle metriche». Ovvero, sia il mercato che il fisco, si devono fidare di quello che ti dicono loro. Al contrario di quel che avviene per l’editoria, che dichiara quanto incassa dalla pubblicità sui loro siti. I manager italiani dicono che la riservatez­za è imposta dalla policy della casa madre. Detta anche policy di non pagare tasse.

Al summit di Tallin, Italia Francia Germania e Spagna porteranno i punti dell’agenda digitale, fra i quali la necessità di operare il massimo sforzo verso la rete a banda larga ad alta velocità e l’espansione a 5 giga, oltre all’impegno di portare a termine una fibra ottica che sia guida a livello mondiale entro il 2025. Noi italiani, che siamo rimasti ultimi in Europa, ne abbiamo bisogno come il pane, per lo sviluppo delle nostre aziende, visto che ci sono aree del paese in cui la connession­e è ancora un desiderio. I primi ad usare queste infrastrut­ture, a carico dei contribuen­ti, sono proprio i giganti del web, però non contribuis­cono a pagarle. Non contribuis­cono come tutti i comuni mortali alle politiche economiche degli stati in cui fanno profitti, perché sono loro sono «volatili». Non stanno da nessuna parte.

Dal summit di Tallin dovrà uscire un’accordo per una fiscalità uguale in tutti i paesi membri, e c’è da augurarsi che non sia un iniquo 3% sul fatturato. Chi deve armonizzar­e è l’Ocse, che essendo finanziato dalla politica americana ne è anche influenzat­o. Ricordiamo che la casa madre di Google, Facebook, Microsoft, e Amazon è, appunto, in California. Già Amazon, che sta falciando in tutta Europa milioni di attività, è anche in crescita vertiginos­a nella vendita della pubblicità online, ma nessuno ancora stima i suoi volumi. Continuiam­o a trattare questo colosso come un venditore di libri, e a cercare la «stabile organizzaz­ione».

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