Meno tasse per le aziende Il piano fiscale di Trump: «Cambio rivoluzionario»
Tagli ai ricchi, ancora poco chiaro l’impatto sul ceto medio
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Il piano fiscale è ambizioso. «Un cambiamento rivoluzionario», il più grande «degli ultimi 80 anni», secondo Donald Trump, che lo ha presentato ieri sera in un comizio a Indianapolis. Il titolo del documento sembra un altro slogan da campagna elettorale: «Schema per riparare il nostro codice tributario “broken”», scassato. Nella mattinata al Congresso si coglieva l’intensità tipica di un momento decisivo per la credibilità del partito repubblicano e la tenuta della stessa presidenza.
Obiettivo: ridurre drasticamente le imposte sia sulle persone fisiche sia sulle imprese. La portata della manovra non è indicata: le stime arrivano fino a 5 mila miliardi di dollari distribuiti sui prossimi 10 anni. Una cifra imponente anche per un’economia come quella americana che produce ogni anno ricchezza per oltre 18 mila miliardi, ma che è gravata da un debito pubblico superiore ai 20 mila miliardi.
L’idea più volte esposta dal ministro del Tesoro, Steven Mnuchin, è recuperare le mancate entrate tributarie nel medio-lungo periodo, sfruttando la cosiddetta «curva di Laffer»: meno imposte stimolano i consumi e gli investimenti che alimentano la crescita del Prodotto interno lordo e, infine, anche delle imposte sulla nuova ricchezza creata. Come si legge nella premessa del testo diffuso ieri, lo stimolo fiscale rilancerà l’economia e favorirà la crescita dei posti di lavoro.
È una leva già azionata in passato, ma sempre con risultati molto deludenti. Il punto di riferimento è l’epoca di Ronald Reagan (1981-1988): l’abbattimento generale del carico fiscale spinse la crescita del Pil fino al 4,1%, ma le casse federali non recuperarono più il gettito perso che si scaricò, invece, sul debito pubblico. Dettagli laterali? Tutt’altro: è esattamente su questo che si confronteranno le diverse correnti del partito repubblicano. L’equilibrio tra sconti fiscali e bilancio federale è ancora da trovare. Non è un caso se nella proposta siano stati lasciati in bianco quei numeri essenziali per determinare l’impatto complessivo della «rivoluzione fiscale».
Per il momento è visibile solo l’ossatura. Gli scaglioni di imposta scenderanno da sette a tre. Il livello di prelievo più alto, oggi al 39,6%, si porterà al 35%. La fascia più bassa salirà dal 10 al 12%. Quella intermedia è al 25%. Ma andranno specificati i livelli di reddito corrispondenti alla nuova architettura su tre piani. Completa il quadro il nuovo sistema delle deduzioni. Vengono raddoppiate quelle standard, mentre scompaiono tutte le altre legate a spese particolari, con l’eccezione degli interessi sul mutuo per la casa e per le donazioni. Sgravi alle famiglie con i figli, mille dollari a bambino. Alla base della piramide contributiva si viene a creare di fatto una «no tax area»: le famiglie
Donald Trump sul prato della Casa Bianca si incammina verso il Marine One che lo porterà a Indianapolis per presentare il suo piano di riforma fiscale (Foto Epa) con redditi annui fino a 24 mila dollari e i single con entrate fino a 12 mila dollari non verseranno nulla.
L’altro cardine è la tassazione di impresa. Qui la Casa Bianca ha dovuto ricalibrare lo slancio iniziale. Trump aveva promesso di quasi dimezzare il tributo sui profitti, dal 35% al 15%. Ora si corre per raggiungere il 20%, «un livello inferiore alla media degli altri Paesi industrializzati, pari al 22,5%». In questo modo si pensa di azzerare lo svantaggio competitivo nei confronti dei Paesi concorrenti e, nello stesso tempo, di recuperare «migliaia di miliardi di capitale aziendale» parcheggiato all’estero. Sarà prevista una misura di scudo fiscale per consentire alle imprese di rimpatriare il denaro.
Il presidente americano respinge l’accusa del leader democratico al Senato, Chuck Schumer: «Questa riforma è un regalo ai ricchi e ai manager delle grandi corporation». Non la migliore premessa per un dialogo che sembra necessario.