Lied e avanguardie: le aspre passioni di Mario Bortolotto
Non era certo un divulgatore. Forse, più un miniaturista di immense mappe culturali, fitte di sentieri che si diramano, fuggono lontano, non si sa bene dove portino, ma è così bello seguire, alla perdizione. Mario Bortolotto, celebrato storico della musica e critico, ci ha lasciati ieri, a novant’anni: età che lo ho reso testimone diretto di quasi un secolo di musica e di diatribe, indagatore ferrigno non solo di secoli passati (la grande stagione romantica), ma soprattutto di un presente, l’Avanguardia postbellica, a lungo terreno di controversia.
Carattere schivo e arcigno, tagliente nei giudizi, di dottrina infinita, Bortolotto era insieme ammirato e temuto. Cultura onnivora, memoria letteraria e musicale prodigiosa. Non faceva mistero delle sue idiosincrasie. Odiava Brecht, autore di «orripilanti commedie», considerava Borges «lettura giovanile», mal sopportava Bruckner quanto Beethoven, «spaventoso gigante», Verdi quanto Musorgskij. La nascita a Pordenone (il 30 luglio 1927), il diploma di pianoforte a Venezia, i primi studi di medicina, poi la laurea in Filosofia a Pavia (tesi su Nietzsche e il concetto di décadence) anticipano la vera fioritura come studioso, che avviene nella patria dell’Avanguardia, i corsi di Darmstadt, alla scuola di Adorno. Seguiranno gli impegni accademici, come docente di Storia della Musica da Venezia a Roma, sua città d’elezione, l’attività giornalistica (come fondatore e direttore di «Lo spettatore musicale», collaboratore di varie riviste e quotidiani), quella di direttore artistico (dell’Orchestra «Scarlatti» di Napoli) e soprattutto la densissima produzione musicologica. Alberto Arbasino nei Ritratti italiani definì gli «iper-saggi» di Bortolotto, nello specifico quelli di Consacrazione della casa, «vertiginosi e fosforescenti, rutilanti nel profondo e maestosi nel capriccio». La sua scrittura era, è così. Un ramificarsi di rinvii letterari e filosofici, prima che musicali, a perdita d’occhio. Tanto erudito da infondere nel lettore l’ipnotico piacere di uno spaesamento, una sensazione di irrimediabile inadeguatezza e, insieme, la voglia di leggere mille altri libri.
I suoi sono da studiare e ristudiare parola per parola. Introduzione al Lied romantico (Adelphi, 1984) è uno scavo che prende le mosse dal profondo dell’anima tedesca quanto dal profondo della sua storia, fino al ‘500. Fase seconda. Studi sulla nuova musica (Einaudi, 1969, ripubblicato da Adelphi nel 2008) resta una pietra miliare nella ricognizione dei legami tra l’avanguardia italiana e la neue Musik di Darmstadt e dintorni, con minuziose analisi-ritratto dedicate all’opera di Luigi Nono (fin con dettagliate tabelle numeriche a esplicitare una particolare «serie ostinata»), Luciano Berio, Niccolò Castiglioni (come «filmato» lungo tutte le sue metamorfosi, affettuosamente dette «capriole»), Evangelisti, Aldo Clementi, Bussotti e Donatoni.
Nel vasto catalogo spiccano poi (per Adelphi) Consacrazione della casa (1982); Dopo una battaglia (1992), sul contributo dell’Ottocento francese alla nascita della modernità musicale, Wagner l’oscuro (2003); La serpe in seno (2007), non scontata «ricollocazione» della musica di Richard Strauss al netto dei suoi facili detrattori; le miscellanee Corrispondenze (2010); e Fogli multicolori (2013), antologia di saggi, resi pungenti da etichette che solo un Bortolotto poteva permettersi: Händel detto «gigante di stile e noia», Henze un «samurai borghese»...