Nostalgia dell’Africa e molto altro Paradiso forgia l’arte antropologica
Ritratto del Sahara, atto secondo. Nel 2013, lo scultore Antonio Paradiso (Santeramo in Colle, Bari, 1936) pubblica un libro con il resoconto di vent’anni di spedizioni in Africa (da 20 giorni a sei mesi ciascuna) con vari compagni di viaggio. Deserti, oasi, città attraversati — talvolta anche in mezzo a conflitti (come quello, a suo tempo, fra Libia ed Egitto) — su una jeep dell’esercito, residuato bellico («Come quella del maresciallo Rommel»), smontata e rimontata pezzo per pezzo, con delle aggiunte (secondo necessità).
Con una prosa nostalgica, fra esperienze di notevole interesse, appaiono e scompaiono personaggi diversissimi fra di loro, che in comune hanno solo l’amore per «la grande schiena della notte».
Adesso Paradiso ritorna con un volume di 420 fotografie, dallo stesso titolo, Ritratto del Sahara (Mudima) dove le insegne stradali africane si intersecano con gli archi di trionfo in lamiera e legno di Gheddafi; i santuari Lobi con la scultura africana contemporanea; la danza delle spade delle Malinke con quelle Bogo di Burkina Faso o Dogon di Falaise di Bandiaraga (Mali). Ed ancora: il ponte di liane sul Volta nero precede la carovana della morte Ondurman di Assuan, i matrimoni dei Tuareg fanno da contraltare alla pratica della circoncisione dell’etnia Lobi (labbra a piattello: non come ornamento ma per «demotivare i mercanti di schiavi»).
Ecco, ancora, i graffiti di ventimila anni fa nel deserto libico; i volti allungati, incisi su pareti di pietra, che ricordano quelli dipinti da Modigliani; l’altare all’ippopotamo; gli stregoni; i ragazzini che sembrano straccioni, che parlano perfettamente il francese; gli alberi di balanites (i datteri del deserto); le sculture della Costa internazionale, l’economista francese Jean-Paul Fitoussi, docente alla parigina Sciences Po e alla Luiss, studioso delle grandi trasformazioni economiche e autore di saggi come Il dittatore benevolo (Il Mulino, 2003) e La democrazia e il mercato (Feltrinelli, 2004). Nella sezione nazionale, i riconoscimenti sono andati d’Avorio; i raduni e le feste tribali Wodaabe del Ciad; le foreste fossili; i ponti di 120 metri di liane; e così via. Immagini suggestive, tutte, di quella che, nella prefazione, Arturo Schwarz definisce «la magia primaria di un mondo dimenticato o forse futuro, dove i fiori di pietra hanno il profumo dei segni della terra d’un Icaro redento».
C’è, dappertutto, una grande nostalgia per il Continente nero. Struggente, talvolta. Certo l’Africa della danese Karen Blixen resta lontana, anche perché Paradiso evita di addomesticare un’antilope come Lulu. Forse l’unica cosa che i due hanno in comune è l’idea che l’Africa per la scrittrice e l’Africa e la Puglia per lo scultore rappresentino una terra in cui è possibile riacquistare lo stato naturale di primitivi moderni. Del «buon selvaggio» insomma.
Basta vedere come Paradiso ha scandagliato la sua terra — le Murge — dove la sabbia richiama quella del Sahara. L’artista ha cercato i segni di lontane presenze nelle pietre, nel paesaggio naturale immerso in un’architettura spontanea, all’imprenditrice Nicoletta Spagnoli, all’imprenditore Pietro Ferrari e a Massimo Dominici, direttore della scuola di oncologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. La cerimonia di consegna dei premi si terrà sabato 14 ottobre all’Auditorium Rita Levi Montalcini di Mirandola. (b. co.) scaturita da esigenze di sopravvivenza. Antonio è anche un antropologo, ma qui l’antropologia non è una materia universitaria, ma una condizione di vita, cui, magari, scienza e tecnologia vanno in soccorso.
Comincia così, per esempio, il suo studio del volo degli uccelli, i loro criteri di orientamento («a vista», «ad olfatto», «di fondo») che Paradiso riesce a fermare su pareti, colonne di ferro, tele, e con cui trascrive i minuetti di Luigi Boccherini (ricordate il ritratto del musicista settecentesco che Goya inserì ne La famiglia dell’infante don Luis?) o i Capricci di Niccolò Paganini.
Proprio i Capricci, diventati sculture in acciaio Corten — dove sul pentagramma le note vengono sostituite da piccolissimi uccelli —, fanno parte dell’antologica che, dal 7 al 29 ottobre, si aprirà alla Sala Lucio Fontana di Comabbio, in quel di Varese, a cura di Massimo Cassani. In mostra anche lavori in metalli vari (alcuni della fonderia di Walter Vaghi), in pietra, oltre a video e foto. E la documentazione de Il toro Pinco (esposto alla Biennale di Venezia nel 1978, dà fama internazionale al suo autore, ammirato da Robert Rauschenberg e stroncato da «L’osservatore romano» che si chiede se Paradiso sia «un artista o un bovaro») e l’Ultima cena globalizzata — esposta qualche anno addietro a Palazzo Reale di Milano — ricavata da 20 tonnellate di putrelle delle torri gemelle del World Trade Center di New York, abbattute l’11 settembre del 2001, e da lui trasportate in Italia in un container di dodici metri.
La ricerca di Paradiso — s’è già detto — parte sempre dall’osservazione del reale e dalla sua naturale curiosità che lo spinge verso l’antropologia. Ma l’arte è antropologia o, piuttosto, l’antropologia è arte?
Ancora studente all’Accademia di Brera, Antonio Paradiso rivolge questa domanda a Marino Marini, uno dei suoi insegnanti. «Non saprei — risponde l’artista toscano — io imparo sempre dai miei allievi». E, quasi in maniera surreale, aggiunge: «Qui ci vorrebbe un camion di donne nude».