Danza primitiva di Waltz tra fasci di luce (e oscurità)
Romaeuropa festival comincia, all’Argentina, con uno spettacolo di indubbia ambizione e rara potenza, Kreatur di Sasha Waltz. Noi che ne riferiamo però cominceremo con, di Waltz, i pensieri. Dice l’artista tedesca, analizzando un lavoro dopotutto collettivo: «Confrontarsi con la fashion designer Iris Van Herpen è stata una sfida da più punti di vista. La sua opera trova fondamento e ispirazione nelle strutture, nelle forme e nei sistemi degli elementi organici. Non voglio chiamare queste creazioni “abiti” oppure “costumi”. Potremmo dire che le sue creazioni siano molto più vicine alla scultura che alla moda “tout court” (…). Anche i Soundwalk Collective, più che essere semplicemente dei musicisti sono degli artisti concettuali che producono opere sonore e li amo proprio per questa ragione. Sono un vero e proprio team di antropologi che utilizza il suono e la musica come strumento per restituire una memoria a spazi effimeri (…). Infine ammiro Urs Schönebaum per le sue luci chiare e nello stesso tempo semplici, molto grafiche, radicali, decise. Condivido con lui l’amore per la luce bianca e per l’oscurità». Come si vede con Kreatur non si scherza: strutture, sculture, concettualità, semplicità, antropologia, radicalità. La danza o il teatro-danza, vanno scomparendo in un orizzonte ormai indefinibile. Il teatro-danza: cos’era? cosa è stato?
Entrano in scena quattordici funambolici corpi avvolti in un bozzolo di materia trasparente, spumosa. Si muovono con cautela. Il primo che se ne libera si accosta a un corpo più alto del suo. Altri si muovono in modo irrelato.
Cercano qualcosa. Si guardano da lontano, fissi. Si avvicinano. Uno avvolge le spalle del secondo. Un altro porta delle lastre d’una materia riflettente in due sensi, in dentro e in fuori. Poi cambia la scena. L’umano (così si può supporre, il bello di ciò che fu teatro-danza è che in esso regna il silenzio, nessuno parla), l’umano prende coscienza di sé. Ha paura. Ha trovato un modo, sebbene parziale, per coprirsi. E così avanza, a tentoni, anche con le braccia, anche piegandosi fino a terra, anche in ginocchio. Il singolo tende a unirsi al gruppo, ma il gruppo è incalzato da forze estranee, invisibili. Tutti insieme, sostenendosi a vicenda, si arrampicano su una scala, vacillano sulla piattaforma cui sono pervenuti, la piattaforma (è la cosa più bella dello spettacolo) si sdoppia, la vediamo di profilo e frontalmente. Poi si comincia a respirare. Cos’è quell’asse se non un simbolo? Non è il principio di un linguaggio?
Tutti vi girano intorno. O la sostengono o vi si innalzano. E tutti si sciolgono, fanno capo a sé. A volte si mostrano come statue deformi. A volte si baciano, si mordono. Un uomo si appende ai seni di una donna.
Ancora lui morde le natiche di un’altra. È così, anche da sdraiati in terra, anche con quella scala che ruota in un doppio senso, è così che nasce la creatura ed è così che nasce il personaggio: entrambi fatti della stessa quasi supponente materia, di mero disegno, di suono, di luce — o di oscurità.