Ipotesi voto a marzo Il Colle si prepara ad affrontare tutte le incognite sulla governabilità
Si va verso lo scioglimento delle Camere ai primi di gennaio
Che Sergio Mattarella sarebbe stato un presidente della Repubblica non invadente e poco rumoroso, dal punto di vista politico, lo si è capito fin dall’insediamento, il 3 febbraio 2015. Ma che non pronunciasse una sola parola sull’accordo per la legge elettorale da lui tante volte sollecitata, è un fatto che colpisce molti. La verità è che la soluzione trovata finora, il cosiddetto Rosatellum bis (per un terzo maggioritario e due terzi proporzionale), pare sciogliere il primo nodo da lui indicato, quello di un’armonizzazione tra Camera e Senato, ma non risolve il secondo punto, cioè l’esigenza di costruire la formula destinata a superare l’Italicum con «la più larga convergenza» dei partiti. E, per quanto il capo dello Stato giudichi un passo avanti, rispetto all’inerzia dei mesi scorsi, il lavoro compiuto finora, è questo a impedirgli di commentare il provvisorio risultato raggiunto finora. Dunque tace per non esporsi a dubbi sulla propria neutralità, dato che la formula su cui si è aggregato il consenso sembra studiata da metà del Parlamento contro l’altra metà.
Ma c’è un altro punto critico da tenere in conto, sebbene meno complesso. Se il Rosatellum andasse sul serio in porto — e sarebbe una scelta costituzionalmente legittima con qualsiasi maggioranza — resta comunque aperta l’incognita lasciata da una lacuna delle sentenze autoapplicative pronunciate dalla Consulta. Per capirci: la disciplina «di risulta» dopo quella pronuncia è imperfetta e ciò rende necessario un intervento legislativo sulle preferenze, con correzioni magari minimali e tuttavia indispensabili per la razionalità del sistema di voto. Sistema che, stando alle analisi degli osservatori politici, non si rivelerebbe affatto in grado di garantire la governabilità.
Lo sa bene anche il Quirinale, dove sono stati archiviati con una certa preoccupazione i sondaggi resi noti nelle ultime settimane. Qualora non cambiasse drasticamente lo scenario attuale, è assai probabile, e anzi quasi scontato, che le urne esprimano un paralizzante replay del 2013: tre grandi minoranze e nessuna maggioranza. Se questo dovesse accadere, che cosa potrebbe fare Mattarella? Rassegnarsi al destino toccato alla Spagna, che dovette ricorrere più volte al voto proprio perché non esistevano maggioranze?
Nell’ipotesi di un risultato bloccato, un pericolo connesso a una formula di voto per la gran parte proporzionale come del resto si profila il Rosatellum, la prassi costituzionale gli imporrebbe di affidare un mandato esplorativo a qualche personalità dotata di capacità aggreganti, per verificare se in Parlamento esista una maggioranza. Incarico che, se la missione dovesse dimostrarsi particolarmente complessa (in fondo la crisi di rappresentanza e di mediazione è il problema più grosso che l’Italia ha da anni), potrebbe coinvolgere fin da subito le alte cariche dello Stato. Cioè i presidenti del Senato o della Camera che, in quanto eletti, sarebbero in sé espressione di una maggioranza. Il che, beninteso, non esclude che nel suo angolo visuale emerga una figura politica per il medesimo incarico di mettere insieme una coalizione. E se è vero che qualcuno già azzarda il nome di Paolo Gentiloni come il meno divisivo per una simile sfida, questo vale per l’oggi, ma sarà lo stesso fra qualche mese? Di sicuro, in ogni caso, c’è che al Quirinale si baderà a non perdere tempo, com’è stato dimostrato nella sostituzione lampo di Matteo Renzi, quasi un anno fa.
Sarebbe un «governo del presidente», quello che nascesse al termine di una simile gestazione da parte del capo dello Stato, nel ruolo di «motore di riserva» di un sistema in panne, come evocato da D’Alema qualche giorno fa sul Corriere? Sì e no, tenendo conto che sul Colle queste definizioni, più mediatico-politiche che giuridiche, sono giudicate improprie e piacciono poco. Infatti ogni esecutivo è del Parlamento (che lo vota) e del presidente (che lo fa giurare davanti a sé). Tutto questo, tranne le eccezioni — che abbiamo avuto — dei governi formati con una più o meno esplicita libertà d’azione rispetto al sistema dei partiti, perché i partiti non erano in grado di dare indicazioni.
E qui si arriva infine al rebus delle date: quando scioglierà le Camere, Sergio Mattarella? Quando si voterà? Se non interverranno cambiamenti traumatici, il capo dello Stato non intende tirarla per le lunghe. E, poiché stavolta si materializzerebbe un caso di «scioglimento tecnico», siccome la scadenza naturale di vita delle Camere è il 15 marzo, giorno in cui si insediò il Parlamento della XVII legislatura, il limite per congedarle va collocato un po’ prima del 6 gennaio. In modo di consentire un’adeguata campagna elettorale e di far aprire le urne ai primi di marzo. Dal 4 in poi, insomma, ogni domenica dovrebbe andare bene.
I nodi Il testo sotto esame ora non risolve tutte le questioni poste da Mattarella I tempi Una volta che si saranno svolte le elezioni il Quirinale non intende perdere tempo