Bravi tra noi Involuti appena oltre confine
Se riusciamo a rimanere a galla, è perché almeno sappiamo ancora nuotare. Letteralmente. Lo sport italiano ringrazi e conservi in buona salute le Pellegrini, i Paltrinieri, i Detti, perché se non ci fosse il nuoto l’oscurità sarebbe totale. L’atletica italiana ha chiuso il Mondiale più imbarazzante della sua storia, un bronzo nella marcia, nessun finalista, diciotto nazioni europee davanti a lei nel medagliere. E gli sport di squadra, per un motivo o per l’altro, non sono stati da meno: dalle scarpe sbagliate di Zaytsev ai pugni amichevoli di Gallinari, dal criticato 4-2-4 del Bernabeu all’epidemia di morbillo di Budapest, per finire con il servizio completo di cucchiai di legno, lo sport italiano si interroga su che cosa non funzioni e su che cosa si possa fare per invertire la tendenza. Carlo Recalcati, l’allenatore dell’ultima medaglia azzurra del basket (l’argento olimpico ad Atene 2004) appena sceso dal podio sentenziò con la lungimiranza di Cassandra: «Attenzione, non stiamo lavorando per costruire giocatori che vengano dopo questi». Aveva ragione da vendere. Il basket si è perso per strada, adesso un’onorevole eliminazione ai quarti di finale può essere considerata un successo, mentre l’Europeo lo vince la Slovenia, 2 milioni e spiccioli di abitanti e palasport che in Italia ce li sogniamo. Ma se sostituiamo la parola basket con calcio, la differenza non si vede. Celebriamo campioni che vivono alla periferia del pallone che conta, ci esaltiamo per un’eliminazione europea ai quarti (sempre lì stiamo) ottenuta grazie all’ossessione di Antonio Conte. E tireremo un sospiro di sollievo se sfuggiremo all’apocalisse (Tavecchio dixit) dell’eliminazione dal Mondiale. Siamo un Paese (sportivamente e non) autoreferenziale, tanto bravi quando ci confrontiamo tra noi, tanto involuti non appena superiamo il confine. È davvero un momento mai vissuto prima: accorgersene sarà il primo passo per evitare di scoprirsi terzo mondo.