Siamo fritti
Tra vari progetti di alternanza scuolalavoro a disposizione, dieci studenti di un liceo scientifico di Ravenna hanno scelto di servire ai tavoli di McDonald’s per sei ore al giorno. Non ho nulla contro la nobile mansione del cameriere e riesco persino a digerire, con l’ausilio di tre flaconi di Alka-Seltzer, l’idea che il lavoro di un apprendista non venga retribuito. Mi sfugge il nesso tra gli studi scientifici e la cottura di un hamburger, però non mi permetterei mai di sindacarlo. Probabilmente la storia è piena di matematici che a sedici anni friggevano patatine per portare a casa un po’ di soldi (anche se qui non portano a casa un bel niente) e per imparare un mestiere. Ma è proprio questo il punto di rottura. Se quei dieci potenziali ingegneri lavorassero gratis presso un falegname, un cuoco o un barbiere, penserei che stanno impiegando il loro tempo libero per apprendere i segreti dell’artigianato italiano. Saperli invece entusiasti di regalare le loro energie a una multinazionale che, date le sue dimensioni planetarie, non può che offrire dei lavori standardizzati e considerare i dipendenti dei numeri intercambiabili, mi fa capire che quei ragazzi ragionano in modo diverso. Che certi onnipotenti marchi globali, verso i quali nutro una spontanea diffidenza, a loro, che ci sono cresciuti insieme, danno al contrario molta sicurezza. Considerano più gratificante servire ai tavoli di un ristorante seriale di McDonald’s piuttosto che a quelli della trattoria a conduzione familiare sotto casa. Sono pragmatici, loro. O forse sono vecchio io.