«Legge sulle armi? Non ora»
IL REPORTAGE DAL LUOGO DELLA STRAGE Silenzio nella città del gioco. L’eroismo di medici e infermieri, ma nessuno parla di armi
Trump dopo la strage di Las Vegas, la sparatoria con più morti della storia recente americana, dice che «della legge sul porto d’armi parleremo in futuro». Quindi, non si cambia, anche perché il massacro al concerto è stato opera di «un folle pieno di problemi». I democratici: combattere contro la lobby delle armi.
«Preghiamo per le vittime, ringraziamo le forze dell’ordine per il loro coraggio». È la notte dopo la strage. La scritta brilla in caratteri dorati su un pannello del Mandalay Bay Hotel. Si mescola alle pubblicità luminose: il concerto di Jennifer Lopez, il match di boxe tra Tony Ferguson e Kevin Lee. È stato un pomeriggio tetro e ora c’è soprattutto silenzio a Las Vegas.
Poca gente ai tavoli da gioco, davanti alle slot machine. Gli investigatori, annuncia lo sceriffo Joseph Lombardo, «stanno ancora esaminando la scena del crimine».
La polizia ha chiuso la sezione della Strip che dal Mandalay Bay arriva fino al Tropicana: uno dei posti più popolari d’America. Da lontano si vede lo spiazzo del concerto country: un’immagine sinistra, difficile da dimenticare. Carte, detriti, una gigantesca trappola mortale.
Due strade più in là, all’incrocio tra Sahara e Las Vegas Boulevard, Jason Piper, 37 anni, «addetto alla sicurezza» in un night club, ha organizzato la prima veglia per le 59 vittime del massacro: il più sanguinoso nella storia moderna degli Stati Uniti.
Con lui c’è Sherene, 25 anni, delle Hawaii, 4 figli. Il killer del trentaduesimo piano, Stephen Paddock, ha ucciso anche tre sue amiche. Ieri mattina presto Jason e Sherene erano di nuovo lì.
Qualcuno porta una candela, c’è chi lascia un fiore. Non è semplice conversare in questi momenti. «Volevo fare qualcosa per le mie amiche, ma non sapevo che cosa. Lavoro in un albergo, ne ho parlato con i colleghi e alla fine abbiamo deciso di venire qui» e Sherene mostra i cartelli scritti con i pennarelli, i palloncini a forma di cuore. Purtroppo simili a quelli di altre stragi a Dallas, a Orlando. Tutti i ricordi, tutti i racconti, il dolore e lo sconcerto finiscono con una sola domanda: «Perché?». Donald Trump, ieri in visita a Portorico, ha risposto: Paddock «era un malato mentale».
Alla centrale della Polizia metropolitana le ore sono scandite dalle conferenze stampa. Nella mattina filtrano altri particolari: nella suite con due finestre, dove il pensionato di 64 anni ha alloggiato per tre giorni, sono state trovate 23 armi, quasi tutte micidiali fucili mitragliatori.
Altri 19 erano custoditi nella casa dell’omicida a Mesquite. Totale 42. Anche questo sembra un interrogativo inevitabile: è giusto così? Non siamo abbondantemente oltre il secondo emendamento alla Costituzione che consacra il diritto all’autodifesa?
Sono dubbi che scivolano via a Las Vegas.
Douglas Fraser, chirurgo all’University Medical Center, è uno degli eroi civili in questa storia.
Il suo ospedale ha tenuto testa all’emergenza e ieri mattina, alle 8.30, ha accettato di uscire in cortile per parlare con qualche giornalista. «Direi che abbiamo vissuto una notte di caos... organizzato. Tutto il personale si è mobilitato. Sono tornati medici che avevano appena smontato. Adesso abbiamo ancora una ventina di persone in condizioni gravi, ma stiamo dimettendo la maggior parte dei feriti. Siamo di nuovo in una situazione normale. Abbiamo tutto ciò che occorre, compreso il sangue per le trasfusioni».
Il dottor Fraser rappresenta il lato più luminoso di questo Paese, quello che puntualmente brilla nei momenti più bui. Ma quando gli si chiede come sia possibile accumulare un arsenale privato, da guerriglia, anche lui svicola. Ti guarda come dire: non è compito mio.
«Non è il momento di parlare di armi», fa sapere il presidente Trump che oggi arriva qui a Las Vegas e dovrebbe passare a salutare anche i feriti ricoverati all’University Medical Center.
A Washington riparte il confronto più aspro tra democratici, favorevoli almeno a una stretta sulla vendita delle armi, e i repubblicani. A Las Vegas, invece, è il giorno del lutto, della gratitudine, dell’orgoglio.
La storia simbolo è forse quella di Sonny Melton, giovane infermiere di 29 anni. Sua moglie Healther ha scritto su Facebook: «Ha salvato la mia vita e quella di altre persone. Ci ha portato via di corsa. Ma poi l’ho sentito gridare: un proiettile lo ha colpito alla schiena e l’ha ucciso».