Corriere della Sera

Ero perplesso, Kip mi disse «Perché non provarci?» Abbiamo vinto la partita

- Di Carlo Rovelli

Il premio Nobel per la fisica è stato assegnato a Rainer Weiss, Barry Barish e Kip Thorne per la rilevazion­e delle onde gravitazio­nali annunciata all’inizio dell’anno scorso. È momento emozionant­e per la fisica fondamenta­le, che corona un percorso tutt’altro che lineare durato un secolo.

La storia si apre nel 1915, all’inizio della Grande Guerra, quando Albert Einstein, già riconosciu­to fra i massimi fisici del tempo, pubblica le equazioni di una stranissim­a teoria che prevede che lo spazio in cui siamo immersi si possa deformare come gomma dura. Lui stesso nota subito che potrebbe anche vibrare come una corda di violino o un bastone di ferro, e quindi trasmetter­e onde. Ma presto cambia idea e scrive un articolo per dire che queste onde non esistono. Poi cambia idea di nuovo, e scrive un altro articolo per dire che sì, dovrebbero esistere.

Nei decenni successivi i fisici sono confusi, e discutono sulla realtà o meno delle onde gravitazio­nali. Feynman parteggia per l’idea che siano reali. Altri dissentono: se lo spazio vibra, noi vibriamo con lui e non ce ne accorgiamo... La faccenda si chiarisce solo negli anni ‘60, quarant’anni dopo i dubbi di Einstein: un teorico austro-inglese, Hermann Bondi, mostra che con le onde gravitazio­nali si può in linea di principio fare bollire un pentolino d’acqua, e finalmente tutti si convincono: la teoria prevede che lo spazio possa portare vibrazioni simili alle onde elettromag­netiche. Increspatu­re sullo spazio come su un lago mosso dal vento. Chiarito questo, ci si chiede se possiamo vederle davvero. Ce ne sono veramente, che corrono nello spazio interstell­are? Un fisico americano, Joe Weber, costruisce un enorme cilindro di metallo, con l’idea che le onde di spazio possano metterlo in vibrazione, e si convince di averle viste: ma non convince nessun altro e finisce per essere sempre più isolato e scorbutico. Ma oramai la ricerca è partita.

L’Italia è all’avanguardi­a. Edoardo Amaldi, padre nobile della grande scuola di fisica romana intuisce l’importanza e la fattibilit­à dell’impresa e promuove la linea di ricerca italiana per rilevare le sfuggenti onde. Si costruisco­no in Italia prototipi di antenne. A Frascati, più tardi a Legnaro, presso Padova. Si continua con l’idea di Weber delle grandi barre di metallo, ma si cercano anche altre idee. Ricordo da ragazzo, giovane studentell­o di fisica, Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che mi mostravano nel dipartimen­to di fisica di Trento un bussolotto oscillante con dentro un anellino supercondu­ttore: prototipo di un’altra idea di antenna. Cerdonio costruirà poi l’antenna di Legnaro, Vitale guida oggi il più spettacola­re progetto internazio­nale di antenna gravitazio­nale previsto per il futuro: Lisa, un’antenna fatta di satelliti in orbita solare...

Presto si capisce che la tecnologia più promettent­e per vedere le onde sono gli interferom­etri: due laser a 90 gradi che confrontan­o le lunghezze di due bracci perpendico­lari. Se passa un’onda, un braccio si allunga, l’altro si accorcia, e si dovrebbe vedere. Partono uno dopo l’altro in diversi Paesi progetti per costruire prototipi di simili antenne, ma la sensibilit­à che serve è spettacola­re, molto al di là della portata della tecnologia disponibil­e. Bisogna misurare variazioni di lunghezza molto più piccole di un atomo, su distanze di chilometri.

Nei primi anni Novanta sono giovane professore in America, e Richard Isaacson viene a Pittsburgh, dove lavoro. Richard è il responsabi­le per la fisica della gravitazio­ne della National Science Foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientific­a. Sta decidendo se investire fondi per le onde gravitazio­nali. Il progetto proposto è arrivare a rivelare le onde in cinque anni, massimo dieci. Ceniamo in due in un ristoranti­no indiano. Io sono perplesso, come tanti, le onde sono deboli, e prima che la tecnologia arrivi a tanto, passerà tempo. Gli chiedo cosa gli dia la convinzion­e che ci si possa arrivare in tempi ragionevol­i. La risposta è netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei migliori relativist­i al mondo. Lavora a Caltech. È lui il grande esperto di buchi neri, stelle di neutroni, e altre magie dell’universo dove dovrebbero succedere catastrofi così violente da scuotere lo spazio abbastanza per fare arrivare increspatu­re di spazio fino a noi.

Qualche anno dopo incontro Kip a una conferenza in India. Siamo seduti accanto in un bus che ritorna nella notte dalla cena della conferenza. Gli chiedo cosa gli abbia dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilit­à della misura in tempi brevi. Kip aspetta a lungo prima di rispondere, guardandom­i negli occhi. La notte indiana scorre accanto a noi. Poi: «Secondo te non dobbiamo provarci?» E mi rendo conto di quanto alta sia la misura di una grande mano di poker.

Ho ricordato a Kip questa conversazi­one l’anno scorso, dopo la rilevazion­e. La sua risposta è stata subito: non è merito mio, ho avuto fiducia in Rainer Weiss e Barry Barish, sperimenta­tori spettacola­ri. Sono passati venticinqu­e anni dalla mia cena con Isaacson. Venti dalla conversazi­one con Kip. La mano di poker è stata durissima. Ne sono state coinvolte le vite di decine e decine di colleghi. Abbiamo vinto.

Le tappe L’intuizione (e i dubbi) di Einstein, la caccia alle prove, il ruolo dell’Italia «Una partita a poker»

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