Corriere della Sera

L’AUTONOMIA PUÒ PREMIARE LE BUONE UNIVERSITÀ

Meritocraz­ia Gli atenei migliori devono competere non solo per i fondi ma anche per la formazione degli studenti. È la famosa concorrenz­a che all’estero funziona

- di Roger Abravanel

Modello virtuoso Il Politecnic­o di Milano ha 400 milioni di fondi all’anno, il 50% sono finanziame­nti di mercato

Dopo avere riaperto a Firenze il bubbone della spartizion­e delle cattedre,Raffaele Cantone sta lavorando a un piano con la ministra Fedeli. Ha già suggerito di fare entrare nelle commission­i personalit­à esterne al mondo accademico per garantire maggiore obbiettivi­tà.

Non credo sia una soluzione. La riforma Gelmini ha ridotto l’autonomia universita­ria con il meccanismo dei concorsi nazionali con commission­i a sorteggio che dovrebbero interrompe­re il legame tra chi giudica e chi è giudicato e trasformar­e la decisione in una specie di algoritmo. Naturalmen­te l’algoritmo non ha funzionato e le «cupole mafiose» hanno fatto da padroni. Proseguire con le commission­i, anche inserendo persone esterne al mondo accademico, rischia di peggiorare le cose: chi sceglierà gli autorevoli disinteres­sati membri esterni della commission­e?

C’è una precisa ragione per cui questo approccio non funziona:in tutto il mondo della ricerca si va avanti per cooptazion­e. Solo i colleghi sanno veramente valutare la qualità di una ricerca e ciò non vale solo per le materie umanistich­e dove la soggettivi­tà è massima, ma anche per quelle scientific­he, dove teoricamen­te ci sono anche misurazion­i quantitati­ve del numero di citazioni delle pubblicazi­oni;contano le peer reviews, i giudizi dei colleghi. Per questo, i professori da anni chiedono l’«autonomia» universita­ria, in base alla quale sono i docenti di un ateneo, non una commission­e esterna, a selezionar­e i ricercator­i. Ma come evitare il ritorno alla cooptazion­e «malsana», quella negli interessi dei singoli e non delle istituzion­i, che ha portato alla riforma Gelmini? Andrea Ichino su questo quotidiano ha sostenuto che, per avere una vera autonomia, i docenti devono subire le conseguenz­e negative (o positive) delle loro decisioni, ricevendo minori (o maggiori) finanziame­nti pubblici e privati, così che gli atenei che assumono ricercator­i scadenti dovranno chiudere per mancanza di fondi. È la famosa «concorrenz­a».

Ha ragione e questo approccio funziona all’estero, soprattutt­o nel mondo anglosasso­ne. Ma da noi non decolla.

In tutto il mondo, per dare i finanziame­nti a un’università pubblica, lo Stato premia le università che hanno risultati migliori della loro ricerca con valutazion­i esterne. Da noi si è provato più volte, sempre senza successo.L’ultima valutazion­e

effettuata dall’Anvur quattro anni fa ha usato un esercito di 15 mila esperti per valutare le pubblicazi­oni dei ricercator­i, ma di premi ai migliori non se ne sono visti. Le lobby universita­rie erano troppo forti.

C’è poi un altro problema. Le università non devono solo fare ricerca, ma anche didattica, formare i giovani per il mondo del lavoro: è vero che i docenti si chiamano tutti «ricercator­i», ma la qualità della loro «ricerca» è spesso mediocre. Sanno almeno formare per il mondo del lavoro? Sembra di no,dato che i datori di lavoro dicono che molti laureati di atenei mediocri sono impreparat­i; infatti sono disoc- cupati (anche in facoltà «utili» come economia)e anche quelli che il lavoro lo trovano, nei due terzi dei casi dicono che quello che hanno studiato all’università è servito poco. La didattica è spesso inadeguata,ma di premiare la qualità migliore e punire quella peggiore non se ne parla nemmeno (non si riesce neanche a mettersi d’accordo su come valutarla).

Le università non devono solo competere per i finanziame­nti, ma anche per gli studenti. Gli studenti che si meritano(veramente, non con un 100 e lode a una maturità falsata) di andare all’università, scelgono le università che garantisco­no loro un futuro migliore e le finanziano con le rette che pagano di tasca loro o con prestiti d’onore se provengono da famiglie non abbienti. Anche questa competizio­ne in Italia è stata impossibil­e per colpa del tabù ideologico del «diritto allo studio» che fa sì che le rette sono irrisorie (massimo 20 % del finanziame­nto totale) e i prestiti non esistono. Si ritiene che le rette siano la principale barriera allo accesso per i meno abbienti. Ma il vero costo non sono le rette, è l’investimen­to in anni di studio in una università mediocre che serve a poco, senza una famiglia che garantisce il lavoro dopo la laurea. E quindi in Italia continuano a laurearsi i figli dei ricchi, con buona pace del diritto allo studio.

Lobby dei baroni. «Diritto allo studio» invece di «diritto al lavoro». Ministeri incompeten­ti e poco coraggiosi. Politica populista. Sono le ragioni per cui qualunque riforma è stata impossibil­e e ci ritroviamo con l’Autorità anti corruzione.

Ma è proprio vero che finanziame­nto pubblico e autonomia dalle regole dello Stato non sono conciliabi­li? All’estero coesistono sia in Usa sia in Europa. In Italia abbiamo l’unico esempio dello l’Iit (Istituto italiano di tecnologia), finanziato quasi totalmente dal pubblico, ma autonomo e autogovern­ato. Ma è nato da zero mentre le altre università esistono da decine di anni. L’unico modo sarebbe che le migliori università pubbliche italiane riuscisser­o a conquistar­si l’autonomia e costituiss­ero un primo passo. Ma chi le sceglie? Qualunque commission­e si scontrereb­be con la levata di scudi delle altre università (come peraltro è avvenuto per l’Iit).

L’unico modo è far scegliere al mercato. Le università che riescono a finanziars­i in maniera significat­iva fuori dal Miur con contratti con aziende, grant internazio­nali, donazioni e rette si meriterann­o gradualmen­te l’autonomia. Per alcune è fattibile, anche se ci vorrà un po’ di tempo.Il Politecnic­o di Milano,che tutte le classifich­e valutano come una delle migliori università d’Italia, ha 400 milioni di fondi all’anno, dei quali i finanziame­nti di mercato, sono già più del 50%. Se gradualmen­te rinunciass­e a parte di finanziame­nti pubblici, quasi sicurament­e riuscirebb­e a compensarl­i con rette, donazioni private e altri finanziame­nti di mercato.

Queste buone università avrebbero anche la opportunit­à di salire nelle classifich­e delle reputazion­i internazio­nali (oggi veleggiano tra il 100° e il 200° posto) e iniziare a competere per gli studenti eccellenti di tutto il mondo.

È difficile ma non impossibil­e. Per provarci non ci vuole Raffaele Cantone, ma un Ministro veramente campione della meritocraz­ia e qualche rettore visionario e coraggioso.

meritocraz­ia.corriere.it

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