Corriere della Sera

Élite d’Italia, quanti errori

Paolo Mieli mette sotto esame le varie classi dirigenti dello Stato unitario Un modello di governo senza alternanza, fondato su compromess­i opachi

- di Paolo Macry

L’Italia cominciò male, scrive Paolo Mieli nel suo ultimo libro Il caos italiano. Alle origini del nostro dissesto

(Rizzoli). Ma non tanto perché, ad appena tre mesi dalla proclamazi­one del regno, fosse morto improvvisa­mente Cavour. O perché nel giro di un paio d’anni caddero uno dopo l’altro ben tre presidenti del Consiglio: Bettino Ricasoli per contrasti con il sovrano, Urbano Rattazzi in seguito ai fatti di Aspromonte e Luigi Carlo Farini a causa di una grave malattia mentale. Il nocciolo del problema fu l’affermarsi di una discutibil­e prassi politico-istituzion­ale che si sarebbe radicata a tal punto da segnare la storia successiva del Paese. E da indurre Mieli a un titolo così forte.

Lo si vide già nel 1876, con la cosiddetta «rivoluzion­e parlamenta­re». Dopo che il governo della Destra di Marco Minghetti era stato messo in minoranza dal Parlamento, il re decise di affidare l’incarico per il nuovo esecutivo non a un altro esponente della stessa area, ma al leader della Sinistra Agostino Depretis: il quale cercò e trovò in Aula la sua maggioranz­a. Sei anni dopo, in vista delle elezioni, Depretis stipulò una serie di accordi con Minghetti, dando vita a un asse tra la Sinistra e importanti pezzi della Destra. E vinse le elezioni. Nato per escludere dal gioco politico le forze ritenute antisistem­a (socialisti, radicali, cattolici intransige­nti), emergeva un modello di governo centrista che era il frutto di accordi e mediazioni parlamenta­ri tra gruppi o singoli deputati. E il voto popolare? Veniva dopo, a maggioranz­a già fatta. E, di regola, nella storia italiana, gli elettori finivano per premiare l’esecutivo in carica. Il bipartitis­mo alla Westminste­r era molto lontano. Appesantit­a dal suo corollario di trasformis­mi e cambi di casacca, la convergenz­a al centro dei partiti (e il taglio delle «estreme») fece sì che non esistesser­o i numeri per l’alternanza. Divenne l’unica strada percorribi­le. Per sperimenta­re l’alternanza, l’Italia dovrà attendere la stagione del bipolarism­o centrodest­ra-centrosini­stra, inaugurata da Silvio Berlusconi. Ma nel frattempo, se non il caos, le criticità politiche del Paese avevano fatto molta strada.

Passando in rassegna una mole di storia e storiograf­ia dell’Italia contempora­nea, Paolo Mieli conferma il suo profilo anfibio. A metà fra presente e passato. La prospettiv­a storica e la consuetudi­ne con tagli cronologic­i lunghi gli danno chiavi di lettura dell’attualità non comuni tra gli osservator­i politici. Viceversa, l’esperienza pluridecen­nale di osservator­e politico arricchisc­e i suoi libri di storia di un understand­ing inusuale tra gli accademici: una singolare capacità di entrare nelle pieghe degli avveniment­i, una certa inconfondi­bile saggezza. Il puzzle del passato, peraltro, non è mai attualizza­zione corriva, né mai un plot fine a se stesso (sebbene ci siano capitoli che si leggono come un romanzo).

Le molte storie compongono comunque una storia unica, una specifica lettura della vicenda italiana. E naturalmen­te, data la biografia dell’autore, a farla da padrona è la politica: un ventaglio di successi, errori, strategie, tatticismi e, soprattutt­o, una questione di scelte. Cioè di uomini: da Quintino Sella a Mario Scelba, da Sidney Sonnino a Bettino Craxi. Non c’è nulla di determinis­tico, nelle pagine di questo libro.

E nulla di acquiescen­te ai riti della correctnes­s. Di una vasta letteratur­a, Mieli privilegia le opere e le interpreta­zioni che gli appaiono più innovative. Quelle che altri inchiodere­bbero allo stigma del revisionis­mo. Ed ecco perciò le molte pagine dedicate al dibattito (tuttora

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