Corriere della Sera

Quanta verità negli pseudonimi

- Di Cristina Taglietti

Parlare di pseudonimi nell’era dei nickname e dei social network significa riportarsi a una lunga tradizione letteraria che risale addirittur­a a Senofonte (scrisse l’Anabasi con lo pseudonimo di Temistogen­e) e ha un suo culmine nelle accademie rinascimen­tali i cui membri, a lungo, si ribattezza­rono con nomi dotti e scherzosi: una specie di passatempo di società che, dopo la Controrifo­rma, diventò anche un utilissimo sistema per proteggers­i.

Oggi se si parla di pseudonimi letterari si pensa a Elena Ferrante per scoprire l’identità della quale si sono scatenate indagini finanziari­e, filologich­e, biografich­e che non hanno risolto il mistero.

È da lì che parte Mario Baudino in un volumetto colto e curioso intitolato Lei non sa chi sono io, oltre che dall’ammirazion­e per Romain Gary, pilota di guerra, eroe gollista, dandy elegante e provocator­io, scrittore raffinato capace di vincere un premio Goncourt nel 1956 con il nome vero e un altro, nel 1975, con lo pseudonimo di Émile Ajar, prima di uscire definitiva­mente di scena con un colpo di pistola nella case parigina di Rue du Bac. Baudino lo fa incontrare con Ferrante attraverso un piccolo, suggestivo corto circuito.

Lo scrittore, giornalist­a appassiona­to di casi editoriali, scandaglia la storia della letteratur­a indagando su una serie di utilizzato­ri di nome de plume e sulle loro ragioni: da Rabelais a Lewis Carroll, da Mark Twain a John Le Carré, da Collodi a Pessoa, oltre, naturalmen­te ai grandi produttori seriali come Stendhal (secondo alcuni studiosi ne inventò 350, il doppio di Voltaire). Baudino informa, divaga, interpreta, racconta la storia inserendo la questione dello pseudonimo in quella, più ampia, della natura e della funzione dell’autore.

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