Quanta verità negli pseudonimi
Parlare di pseudonimi nell’era dei nickname e dei social network significa riportarsi a una lunga tradizione letteraria che risale addirittura a Senofonte (scrisse l’Anabasi con lo pseudonimo di Temistogene) e ha un suo culmine nelle accademie rinascimentali i cui membri, a lungo, si ribattezzarono con nomi dotti e scherzosi: una specie di passatempo di società che, dopo la Controriforma, diventò anche un utilissimo sistema per proteggersi.
Oggi se si parla di pseudonimi letterari si pensa a Elena Ferrante per scoprire l’identità della quale si sono scatenate indagini finanziarie, filologiche, biografiche che non hanno risolto il mistero.
È da lì che parte Mario Baudino in un volumetto colto e curioso intitolato Lei non sa chi sono io, oltre che dall’ammirazione per Romain Gary, pilota di guerra, eroe gollista, dandy elegante e provocatorio, scrittore raffinato capace di vincere un premio Goncourt nel 1956 con il nome vero e un altro, nel 1975, con lo pseudonimo di Émile Ajar, prima di uscire definitivamente di scena con un colpo di pistola nella case parigina di Rue du Bac. Baudino lo fa incontrare con Ferrante attraverso un piccolo, suggestivo corto circuito.
Lo scrittore, giornalista appassionato di casi editoriali, scandaglia la storia della letteratura indagando su una serie di utilizzatori di nome de plume e sulle loro ragioni: da Rabelais a Lewis Carroll, da Mark Twain a John Le Carré, da Collodi a Pessoa, oltre, naturalmente ai grandi produttori seriali come Stendhal (secondo alcuni studiosi ne inventò 350, il doppio di Voltaire). Baudino informa, divaga, interpreta, racconta la storia inserendo la questione dello pseudonimo in quella, più ampia, della natura e della funzione dell’autore.