CRONACHE DI UN DESTINO FLUTTUANTE
VITA DI KUNIYOSHI, TRA ALTEZZE E ABISSI SVELÒ LA POESIA DI CORTIGIANE E BRIGANTI L’appuntamento A Milano una mostra sull’artista che, con la sua capacità visionaria, diede voce al Giappone dell’Ottocento
Lo spirito del gatto lo avvolgeva come un secondo kimono. Per i contemporanei, addirittura, Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) era a volte considerato lui stesso un «bakeneko», vero e proprio Stregatto ante litteram (che Lewis Carroll si sia ispirato al maestro giapponese?), creatura a metà tra una fantasma e un mostro felino la cui caratteristica principale era il trasformismo: figura del folklore popolare, poteva assumere la sembianze del suo padrone umano, camminare sulle zampe posteriori e, naturalmente, parlare.
Sin da giovane, il maestro dell’Ukiyo-e nato non lontano dall’allora piccolo villaggio di pescatori di Edo, la futura Tokyo, aveva suscitato interesse per le sua capacità artistiche, per un realismo visionario che interpretava alla perfezione i gusti dell’epoca. Gusti che avrebbero condizionato l’immaginario occidentale di lì in avanti: le stampe policrome su carta con matrici lignee sono ancora oggi capaci di ispirare — non solo nel Sol Levante
— cinema, manga, lette- ratura grazie ai capolavori dei Grandi dell’Ottocento nipponico, lo stesso Kuniyoshi e nomi ormai di dominio comune quali Hokusai, Hiroshige, Utamaro.
I gatti, dunque, che il Maestro adorava al punto da nasconderne uno nella manica della sua veste anche quando lavorava alle sue creazioni, mentre felini di ogni taglia e colore vagavano liberi per la sua casa-studio, facendosi le unghie sui bonsai che decoravano gli interni. E comparivano nelle stampe come protagonisti reali o immaginari: artisti del Kabuki con musi e orecchie animalesche o gatti veri e propri che si alzavano sui posteriori per recitare avvolti in sete preziose. I mondi si compenetravano e i bakeneko potevano passare dall’uno all’altro, senza fatica.
Eppure Kuniyoshi è stato capace di trasferire con inchiostro e colori molto altro nei suoi Ukiyo-e. Per esempio i 108 briganti protagonisti della saga «Suikoden», sorta di Robin Hood d’Oriente (l’origine letteraria è in Cina) celebrati nei villaggi perché combattevano i potenti corrotti e crudeli. O i samurai protagonisti delle battaglie che avevano trasformato il Sol Levante ma che, nel Diciannovesimo secolo, andavano inconsapevoli verso l’irrilevanza. E ancora: le splendide cortigiane che allietavano i signori dell’epoca, i paesaggi che avevano assorbito in parte l’influenza inevitabile dell’Occidente, le figure mitologiche proprie della storia patria.
Figlio di un tintore di seta, sin da bambino (il suo vero nome era Yoshisaburo) dimostrò un innato talento per la raffigurazione artistica, tanto che a soli 12 anni fu ammesso nella celebre scuola di xilografie Utagawa, a Edo, dove in breve ricevette il suo nome d’arte: Kuniyoshi. Allievo modello, cercò di affrancarsi il prima possibile dalla tutela (e dalla concorrenza) di un istituto che assorbiva le energie
Figlio di un tintore di seta, visse anche periodi senza lavoro
creative a scapito dell’individualità. Ma questa ricerca di autonomia, la sua curiosità verso le tecniche occidentali (l’uso del rame, per esempio, i cui effetti xilografici cercò di imitare), gli regalarono anche momenti di oblìo, come quando (tra il 1818 e il 1827) nessun committente arrivò a bussare alla sua porta, costringendolo a vendere tatami per sbarcare il lunario.
Una figura con luci e ombre, dunque, che rimase tuttavia sempre fedele ai propri principi, ai propri sogni che trasferiva sulla carta dando vita a allegorie policrome capaci di sorprendere per la loro somiglianza con le opere di Arcimboldo: figure nascoste in altre figure, animali che ordinava in file e pose che alla distanza componevano ideogrammi dai significati omologhi, guerrieri e scene agresti che raccontavano un Giappone prossimo a intraprendere una rivoluzione — la riforma Meiji — capace di cambiarne per sempre il destino, aprendolo al progresso tecnologico.
E Kuniyoshi, che nel frattempo aveva inaugurato una propria scuola, fece in tempo a raffigurare i primi occidentali arrivati nel porto di Yokohama, aperto ai commerci nel 1859: l’artista, colpito pochi anni prima da paralisi, ha un tratto ormai evanescente, una capacità espressiva più labile. O forse ha semplicemente compreso che il suo universo sta per cambiare per sempre. In realtà, il mondo fluttuante dei suoi eroi non era affatto destinato a sparire: per nostra fortuna.
Una figura con luci e ombre, che rimase tuttavia fedele ai propri sogni Vicino ai poveri Rese omaggio alla saga «Suikoden», dei Robin Hood d’Oriente, nemici dei potenti