2017, ODISSEA NEL NUOVO SPAZIO
A Milano una mostra racconta le missioni della Nasa (ma non solo). Corpuscoli di un immaginario che la tecnologia rende più accessibile
Le stupefacenti immagini della Mostra- Nasa di Milano sono solo l’ultimo passaggio di un’osservazioneinte r rogazione (quella sullo spazio interstellare) cominciata nella Preistoria profonda. Un’osservazione a lungo di matrice magico- mitica, coi «cieli perduti» solcati dai carri degli dei greci o dalle navi vichinghe di quelli dell’epos nordico.
Uno dei primi sguardi disincantati è quello di Talete, nella Grecia del VII-VI sec. a.C.: Aristotele, non a caso, lo considerava il primo «vero» filosofo; mentre Platone citava un famoso aneddoto, secondo cui Talete (passeggiando con lo sguardo rivolto al cielo stellato) sarebbe caduto in un pozzo, uscendone poi, dileggiato, grazie a una servetta. Ma quella versione (che ne fa il prototipo dell’intellettuale svagato) è contraddetta da un’altra, secondo cui un Talete proto-scienziato si sarebbe invece calato volutamente nel pozzo scorgendovi un «telescopio naturale » , in quanto la schermatura delle pareti permetteva di focalizzare al meglio il disco di cielo inquadrato.
Al tempo di Talete (e di fatto fino alle scoperte geografiche moderne) l’interrogazione sullo spazio-universo era l’estensione di quella sui confini della Terra: proprio al tempo di Talete, si identificano nelle « colonne d’Ercole » ( lo stretto di Gibilterra) un limite invalicabile della geografia terrestre e quello della conoscenza umana, come ricorda lo scacco finale dell’Ulisse dantesco. Oggi,
PER MILLENNI LA CURIOSITÀ SI È «NUTRITA» DI GALASSIE OGGI QUEL MONDO È VICINO
quei limiti sono stati spostati in regioni più remote, tanto che l’universo osservabile coincide con numeri-monstre come 10¹¹ galassie e 10²³ stelle. Prospettiva in cui la Terra, progressivamente «ristretta» e spremuta per congestione demografica ed esaurimento delle risorse, ci costringe a guardare a quelle vastità, non solo come a un Altrove poetico-cognitivo, ma anche come a una disperata via di fuga.
Una via, ricordano tanti scienziati, destinata a restare, però, per molto tempo utopica. Non mancano infatti corpi celesti «compatibili» con l’astrobiologia terrestre, da alcuni pianeti extrasolari a veri «doppi» della Terra stessa; vari satelliti naturali, dall’immane Titano (Saturno) ai piccoli Fobos e Deimos ( Marte); e asteroidi come Apofi. Ma, in ogni caso, arrivarci non è agevole: l’esopianeta più vicino e affine, Proxima Centauri b (nello stesso «sistema» della luna Pandora di Avatar) dista 4 anni luce e sarebbe raggiungibile, con gli attuali razzi, in più di 100.000 anni solari. In attesa di tecnologie più performanti (i razzi a propulsione nucleare), sembra più utile affrontare la nostra forzata permanenza terrestre, cominciando ad affinare le energie alternative.
Per le migrazioni cosmiche, non resta, per ora, che affidarsi all’immaginario, dove tutto è possibile. Arrivare su corpi celesti geocompatibili con viaggiatori ibernati (come in 2001 di Kubrick) o con colonie disposte a riprodursi lungo il viaggio (come in Paradisi
perduti di Ursula Le Guin, in cui, peraltro, la quinta generazione decide di restare nell’astronave). Oppure spostare le megalopoli negli spazi interstellari, come nelle Città volanti di James Blish (con generatori che permettono agli agglomerati di ruotare «sospendendo» la gravità e di alimentarsi dell’energia necessaria per volare). O aspettare i segnali di qualche intelligenza aliena, come in Un regalo dalle stelle di James Gunn, in cui un ingegnere aeronautico trova un manuale con le istruzioni per costruire un’astronave dalla «propulsione inaudita». E se, rientrando nella realtà, quei segnali si rivelassero improbabili, come il messaggio imperiale del racconto di Kafka, l’attesa ci avrà almeno consolato della nostra solitudine cosmica.
Eppure certi sogni celesti restano tali, almeno per adesso