Rajoy dà 5 giorni alla Catalogna: «Dovete chiarire»
di Andrea Nicastro ed Elisabetta Rosaspina
Il premier spagnolo, Mariano Rajoy, si è rivolto al leader catalano, Carles Puigdemont, chiedendogli un sì o un no, senza giri di parole o «deliberata confusione»: hai dichiarato o no l’indipendenza della Catalogna? Il collega «ribelle» ha tempo fino a lunedì 16 per rispondere.
DAL NOSTRO INVIATO
I primi interpreti del pensiero di Carles Puigdemont sono stati martedì sera, nel Parlament di Barcellona, i reporter locali. In tutte le lingue conosciute hanno tentato di tradurre quell’«assumo il mandato per far sì che il popolo della Catalogna diventi uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica» che il presidente aveva appena pronunciato. Ma di chiarezza ne restava poca ed è allora scattato il piano B. Torme di giornalisti si sono messi a dare la caccia a ogni deputato catalano in uscita dall’emiciclo. Puigdemont ha dichiarato l’indipendenza o no? L’«interpretazione autentica» non è arrivata. Gli anticapitalisti della Cup dicevano che no, non c’era stata e minacciavano di far cadere il governo. Il circolo del presidente diceva che no, era tutto rimandato e con un’abile mossa tattica ora era Madrid a giocarsi la reputazione rifiutando la «mano tesa» del presidente. Altri della maggioranza erano ancora di un altro avviso. «Sì, cioè non proprio, ma in ogni caso è tutto sospeso, quindi non è poi così importante». Più o meno la stessa cosa che avevano capito al volo gli indipendentisti in piazza ad ascoltare Puigdemont e che infatti avevano ripiegato mesti le bandiere.
Ieri, la confusione è proseguita. Mentre quasi tutti i giornali parlavano di «indipendenza mai dichiarata» oppure «simbolica», le associazioni nazionaliste davano con il passare delle ore un’interpretazione sempre più netta e, dal loro punto di vista, più ottimistica: «Il presidente ha dichiarato l’indipendenza, ma l’ha subito sospesa». Ecco allora, a metà mattina, che il mondo ha scoperto l’importanza di chiamarsi Rajoy. Il presidente del Consiglio spagnolo si è rivolto al «collega» ribelle di Barcellona chiedendogli un sì o un no. Netti. Al di là dei giri di parole, «della deliberata confusione», hai dichiarato o no l’indipendenza della Catalogna?
Puigdemont ha fino a lunedì 16 per rispondere. Se dirà di sì il governo di Madrid gli concederà altri tre giorni per fare marcia indietro. Se tutto resta com’è o se Puigdemont dovesse sostenere di aver effettivamente dichiarato la secessione, giovedì mattina il governo Rajoy sgancerà la sua bomba atomica: l’articolo 155 della Costituzione. Mossa scaturita da uno «storico accordo» del Partito popolare con i socialisti di Sanchez per «rispondere in maniera coordinata alla sfida secessionista» della Catalogna.
L’articolo è stato usato una sola volta nel 1989 e in modo molto blando nella storia della democrazia spagnola quando il governo dell’allora premier socialista Felipe González dovette commissariare le finanze delle Canarie per poter entrare nell’Unione Europea. Con il 155, Rajoy potrà sottrarre i poteri del governo autonomo fino a decidere, probabilmente, di indire nuove elezioni.
Nel frattempo però le inchieste della magistratura nei confronti di Puigdemont e dei suoi ministri vanno avanti. Già solo il fatto che, senza ambiguità, Puigdemont abbia riconosciuto i risultati del referendum, lo mette nei guai. Il voto dell’1 ottobre era illegale, vietato dai tribunali e se è stato un successo organizzativo e di partecipazione popolare per il governo catalano, resta un reato. «Non abbiamo rinunciato a nulla, abbiamo solo preso una pausa per facilitare la mediazione», ha detto il portavoce catalano Jordi Turull. La vice premier spagnola Soraya Saenz de Santamaria è stata invece tagliente: «Non c’è proprio nessuna mediazione possibile con chi si pone fuori dalla legge. Prima si recupera il rispetto costituzionale e poi si discuterà di mediazioni».
«Siamo in uno dei momenti più difficili della nostra storia», ha detto Rajoy rivolgendosi al Congresso di Madrid.