Corriere della Sera

La rivoluzion­e di Lenin non è finita

1917-2017 Da oggi in edicola con il quotidiano un volume sugli eventi che portarono alla nascita dell’Unione Sovietica. Lo storico Graziosi: fu un esperiment­o fallimenta­re sul piano economico ma ha lasciato tracce molto profonde. Oltre ad allargare la dis

- di Antonio Carioti

Sì, è utile ripercorre­re e ripensare la storia della rivoluzion­e russa, come ha fatto il «Corriere della Sera» nel volume 1917 Ottobre Rosso, in edicola da oggi con il quotidiano. Perché, anche se l’Urss è scomparsa, l’eredità dell’opera di Lenin e Stalin non si è affatto dissolta. Lo sostiene Andrea Graziosi, autore di un’ampia Storia dell’Unione Sovietica in due volumi edita dal Mulino: «Per oltre due secoli, dall’epoca dello zar Pietro il Grande e in parte anche da prima, la Russia aveva cercato di avvicinars­i all’Europa. E ci era riuscita, come dimostra la sua fioritura culturale nell’Ottocento. Ma la rivoluzion­e d’Ottobre segna una frattura che non si è più sanata. Con il regime sovietico inizia una divaricazi­one a cui neppure la caduta del comunismo ha posto rimedio. Mentre alcune componenti dell’impero smembrato, dall’Ucraina alla Georgia, sono attratte dall’Europa, le forze che spingono in tal senso a Mosca sono molto più deboli che in passato. In questo come in altri aspetti (penso al modo in cui rivendica come fonte di legittimaz­ione la vittoria nella Seconda

Al governo I comunisti costruiron­o il nuovo Stato dando spazio a gente di umili origini e senza scrupoli

guerra mondiale), il regime di Vladimir Putin è segnato dal lascito sovietico».

Eppure i bolscevich­i guardavano ai Paesi industrial­izzati. «Ma Lenin — ricorda Graziosi — fu il primo ad essere colto di sorpresa dagli eventi: poco prima che cadesse lo zar, aveva dichiarato nel suo esilio svizzero che non sarebbe vissuto abbastanza per vedere il socialismo in Russia. Poi colse con grande abilità ed energia l’occasione rivoluzion­aria che si era presentata, ma nell’ultimo periodo della sua vita si chiedeva se avesse fatto bene. Siamo saliti sul treno, scrisse, però non sappiamo se vada nella direzione giusta».

I bolscevich­i erano una esigua minoranza, come s’imposero? «Prevalsero nelle città della Russia con l’appoggio del proletaria­to urbano stanco della guerra e di alcuni reparti militari, sia quelli che stavano al fronte e desiderava­no la pace, sia quelli che in prima linea non ci volevano andare. Dopo aver rovesciato un governo molto debole, proclamaro­no la terra ai contadini, l’autodeterm­inazione alle minoranze nazionali dell’impero, e insomma dissero formalment­e di sì a tutte le richieste principali delle masse popolari».

Però fu più difficile rimanere in sella, osserva Graziosi, affrontand­o una feroce guerra civile: «I bolscevich­i ressero perché rifondaron­o lo Stato su nuove burocrazie, specie l’apparato militare e quello poliziesco, assorbendo anche settori dell’amministra­zione e del corpo ufficiali ereditati dallo zar, ormai convinti che seguire Lenin fosse l’unica strada per rigenerare una grande potenza russa. Riuscirono a guadagnars­i la parziale neutralità dei contadini, che temevano di perdere, oltre al grano presogli dai comunisti, anche la terra se avessero vinto i controrivo­luzionari. Inoltre i bolscevich­i costruiron­o lo Stato, promuovend­o in massa uomini capaci e risoluti provenient­i dalle classi umili. Era di solito gente brutale, che infatti poi trovò in Stalin il suo capo più idoneo: un uomo crudele, ma di acuta intelligen­za, che dimostrò doti notevoli nell’edificazio­ne del nuovo Stato».

Un fallimento drammatico si registrò invece in campo economico: «Il cosiddetto comunismo di guerra introdotto nel 1918, con le requisizio­ni forzate di derrate agricole, fu poco più di una rapina per tenere in piedi le forze armate e gli apparati statali. Ma più in generale la gestione amministra­ta dell’economia da parte dello Stato, secondo i dettami della dottrina marxista, si rivelò un disastro. La Nep, la relativa apertura al mercato adottata nel 1921, fu l’ammissione di uno scacco, e fallì anche il tentativo di Stalin di rivitalizz­are l’economia di comando al momento del lancio del piano quinquenna­le nel 1928-29».

Una scelta nella quale contò il pregiudizi­o ideologico: «I dirigenti sovietici credevano davvero nel cosiddetto socialismo scientific­o. Stalin s’ispirò ad alcuni testi di Marx mentre preparava i provvedime­nti contro i contadini. E ancora nel 1930 in Urss ci fu un secondo tentativo di abolire la moneta, dopo quello abortito della prima fase postrivolu­zionaria. Alla fine il sistema economico emerso negli anni Trenta ci appare il frutto di un aggiustame­nto tra i dettami del marxismo e la realtà, che riuscì a durare anche grazie alle immense risorse naturali di cui disponeva l’Urss, oltre che alla vittoria del 1945. Lo stesso Mikhail Gorbaciov del resto credeva nel socialismo e cercò di salvarlo con le riforme».

Ben più saggi, secondo Graziosi, si sono dimostrati i comunisti cinesi: «Krusciov, che pure non era stato direttamen­te colpito dalla repression­e staliniana, condannò Stalin, ma conservò il sistema economico da lui costruito; Deng Xiaoping, che era stato epurato e il cui figlio era stato torturato, non svalutò la figura di Mao Zedong, ma ne demolì completame­nte le scelte economiche. Una strategia che ha funzionato bene. Oggi la Cina ha conservato in parte l’impronta del bolscevism­o: è governata da un partito di stampo leninista, che si è rivelato uno strumento efficace per gestire il potere politico. Ma Pechino ha rinnegato la dottrina marxista e si è affidata con successo al profitto per produrre sviluppo e ricchezza».

La spartizion­e dell’Urss tra diverse repubblich­e non dimostra che anche la politica sovietica verso le nazionalit­à è stata un fiasco? «No — risponde Graziosi —, evitiamo di scambiare l’effetto per la causa. L’Urss è crollata perché il suo sistema economico, tra il 1985 e il 1988, si è dimostrato irriformab­ile. Solo allora le rivendicaz­ioni nazionali hanno preso il sopravvent­o e proprio perché le repubblich­e erano rimaste l’unica realtà solida alla quale ci si poteva aggrappare. Stalin, da giovane un fervente patriota georgiano, sapeva che l’appartenen­za nazionale è più forte della coscienza di classe. E plasmò l’Urss come una federazion­e di Stati costruiti ciascuno intorno a una lingua nazionale. Un modello che, in forma democratic­a e non monopartit­ica, è stato imitato dall’India, strutturat­a anch’essa come un’unione di Stati linguistic­i: un altro esempio di quanto pesi ancora, nel mondo di oggi, l’eredità della rivoluzion­e sovietica».

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 ??  ?? Sentinelle A sinistra: la copertina del libro in edicola oggi con il «Corriere». In alto: I primi giorni dopo l’Ottobre, un dipinto celebrativ­o dell’artista sovietico Georgy Savitsky (soviet-art.ru)
Sentinelle A sinistra: la copertina del libro in edicola oggi con il «Corriere». In alto: I primi giorni dopo l’Ottobre, un dipinto celebrativ­o dell’artista sovietico Georgy Savitsky (soviet-art.ru)

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