Corriere della Sera

Un mito capace di reggere alle smentite della storia

Il bolscevism­o affascinò masse e intellettu­ali agitando l’illusione della società senza classi

- di Giovanni Belardelli

Nel marzo 1919 Alphonse Aulard, professore di storia della rivoluzion­e francese alla Sorbona, formulava un paragone tra il 1789 e il 1917 destinato a una straordina­ria fortuna: «Anche la rivoluzion­e francese è stata compiuta da una minoranza dittatoria­le», anch’essa ha dovuto combattere contro i suoi nemici e utilizzare delle procedure che alimentaro­no l’accusa ai francesi d’essere «dei banditi». Dunque, concludeva, «quando mi dicono che c’è una minoranza che terrorizza la Russia, capisco solo una cosa, che in Russia c’è la rivoluzion­e».

Ecco, formulata da uno studioso che pure si dichiarava politicame­nte lontano dai bolscevich­i, una delle ragioni, forse la principale, che avrebbero determinat­o l’enorme fascinazio­ne della rivoluzion­e d’Ottobre in tutto l’Occidente, ben oltre i confini di chi militava a sinistra. Secondo questa visione, con la presa del potere da parte di Lenin la rivoluzion­e, che era iniziata nel 1789 ma presto si era interrotta per l’egoismo della borghesia vincitrice, finalmente riprendeva il suo cammino. E lo riprendeva agitando quella promessa di eguaglianz­a sociale che i rivoluzion­ari francesi, si sosteneva, avevano presto dimenticat­o.

Che si trattasse solo di un’illusione, che in Unione Sovietica nessuna eguaglianz­a sociale si stesse davvero realizzand­o (se non nella forma di una generale penuria, da cui erano esclusi però i vertici del regime), questo non ha avuto mai molta importanza per chi ha creduto nel mito dell’Ottobre rosso. Neanche le notizie sulle violenze compiute dai bolscevich­i contro i loro oppositori o sulla vera e propria guerra combattuta da Stalin per cancellare i contadini come classe, assassinan­doli o deportando­li nel Gulag, furono in grado di distrugger­e completame­nte quell’immagine iniziale, di una rivoluzion­e che issava lo stendardo dell’eguaglianz­a tra gli uomini.

Ancora nel 1996 a Norberto Bobbio accadde di scrivere che in Urss «il più grandioso tentativo di realizzare in terra la millenaria utopia di una società di eguali si era rovesciato in una spietata forma di dispotismo». Una frase in cui la netta condanna degli esiti politici dell’Ottobre rosso non nascondeva qualche ammirazion­e per i suoi presuppost­i ideologici.

Del resto, vari anni prima, Alcide De Gasperi aveva mostrato di ammirare il messaggio universali­stico del comunismo sovietico, il cui «formidabil­e tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali» a suo giudizio era eminenteme­nte cristiano. Perfino lui, dunque, che nell’Italia del dopoguerra si stava opponendo con successo alla sinistra comunista, finiva col seguire quel doppio standard con cui tanta parte delle élites intellettu­ali e politiche europee hanno valutato per molto tempo le dittature del Novecento: mentre regimi come quello fascista e nazista sono stati condannati anzitutto sulla base dei risultati, cioè delle azioni effettivam­ente compiute, il regime nato dalla rivoluzion­e del 1917 è stato giudicato con qualche indulgenza sulla base delle sue premesse (e promesse) ideologich­e.

Alla fine degli anni Venti ad alimentare ancor più il mito dell’Urss era intervenut­o il primo piano quinquenna­le varato da Stalin: il processo di collettivi­zzazione delle campagne e l’industrial­izzazione forzata che vi si accompagna­va parvero a molti non solo un modo per modernizza­re un Paese arretrato, ma anche un’alternativ­a all’irrazional­ità dell’economia capitalist­ica, squassata dalla Grande Crisi innescata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929. «Il comunismo presentato come un mezzo per migliorare la situazione economica è un insulto alla nostra intelligen­za», scrisse un economista di sinistra come John Maynard Keynes nel 1934. Ma molti intellettu­ali occidental­i non la pensavano affatto come lui.

Di fronte ai grandi processi di Mosca cominciaro­no però ad aumentare i dubbi sul regime nato dalla rivoluzion­e d’Ottobre. Nel 1937 lo scrittore francese André Gide, che pure in precedenza aveva manifestat­o le sue simpatie per l’Urss di Stalin, scrisse di ritenere che «in nessun Paese, fosse pure nella Germania di Hitler, lo spirito è meno libero, altrettant­o asservito, intimidito (leggi: terrorizza­to), schiavo». In quello stesso anno la filoso- fa Simone Weil definiva i due regimi «quasi identici». Un paragone che nell’agosto 1939 il patto di non aggression­e tra Urss e Germania venne a confermare, lasciando nello sconcerto i militanti comunisti, ma anche i tanti che in Occidente ancora simpatizza­vano per il regime sovietico.

Sembrò la fine della grande illusione che si era impadronit­a per anni di milioni di europei. Ci pensò Adolf Hitler, involontar­iamente, a dare nuova linfa al mito del comunismo. L’attacco all’Unione Sovietica nel giugno 1941 e il ruolo decisivo avuto da questo Paese nella guerra contro la Germania fecero presto dimenticar­e il patto di due anni prima. L’ex alleato di Hitler, Stalin, diventava uno dei grandi liberatori d’Europa.

Così la grande illusione che si era affermata nel 1917 riacquista­va credito e riprendeva slancio. Per molti sarebbe terminata nel 1956, con la rivelazion­e

Ostinazion­e Nemmeno le notizie sul terrore e sul Gulag aprirono gli occhi agli estimatori di Stalin Il paragone con il 1789 francese servì a giustifica­re le violenze compiute dalle guardie rosse dopo il colpo di mano Voci critiche Persone come Gide, Keynes e Simone Weil misero in luce i guasti del sistema sovietico

da parte di Nikita Krusciov dei crimini di Stalin e con l’immagine dei carri armati russi aggressori a Budapest. Per altri avrebbe avuto fine con l’invasione della Cecoslovac­chia nell’estate del 1968. Per altri ancora sarebbe durata più a lungo (nel 1977 un sondaggio indicava che la metà dei militanti del Pci riteneva i diritti individual­i meglio garantiti in Urss che in Italia), terminando solo nel fatidico 1989 con la caduta del Muro di Berlino.

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