PASSAGGI VENEZIANI
L’appuntamento Le Gallerie dell’Accademia festeggiano il bicentenario della fondazione con una mostra in cui anche le statue equine di San Marco raccontano una storia di cose perse e recuperate. Uno scrittore (lagunare) spiega perché UMANITÀ, PIÙ CHE ARRO
Oro, gemme, vasellame, drappi di seta, qualsiasi cosa. Anche le reliquie; testa di Santo Stefano, capelli della Vergine, gomiti, scapole. I crociati prendono tutto, lo ammassano in tre chiese, piene dal pavimento alle cupole. Non depredano i mussulmani, infatti, ma gli altri cristiani.
È il 1204, e una strana crociata è partita da Venezia. Avrebbe destinazione Gerusalemme, ma non ci arriverà mai. Prima si sono fermati a Pola, da altri cristiani ancora, addirittura «cattolici», per mettere a ferro e fuoco la città. Poi, invece che scendere verso la Terra Santa, hanno deviato per Costantinopoli, la città dello scisma degli ortodossi, l’altra Roma, la città d’oro, la più ricca del mondo.
Almeno, finché non arrivano loro. Vengono dal Monferrato e dall’Ungheria, dalla Francia e dalla Germania. Soprattutto, da Venezia. Hanno un pretesto; aiutare Alessio IV, figlio di Isacco II, detronizzato e accecato dal fratello, a riprendersi il trono d’Oriente. Alessio promette la riunione delle chiese, e, soprattutto, ricchezze ai combattenti, ma quando il padre torna al potere non ci sono più soldi, e i crociati bivaccano in città, scontenti, ubriachi, tra scorribande e furti, finché non decidono di ribellarsi, indossano corazze e alzano piattaforme, varcano infine le mura di Teodosio. Un saccheggio terribile; gli storici dicono che «arrivarono con i colori di Dio e indossarono poi quelli del Demonio».
I più efferati sono i francesi; prendono tutto quel che luccica, le monete e le donne. Gli altri si concentrano sulle statue metalliche, ma mica per tenersele; le fondono in monete per pagare la soldataglia. I veneziani, invece, cercano le cose più preziose, per conservarle, per lasciarle belle. Quando arrivano all’ippodromo, il vasto campo che sta ancora vicino a Sultanahmet, oltre Santa Sofia e la Moschea Blu, vedono una quadriga. Cavalli di bronzo, enormi, eleganti, con gli occhi tristi. Li vuole Enrico Dandolo, il doge, che ha novant’anni ed è cieco, ed è lì, in mezzo ai combattenti. I cavalli si imbarcano. I veneziani non si domandano da dove vengono; sanno che sono antichi e preziosi, forse greci, forse romani. Prima di loro, qualcuno già li ha presi da qualche altra parte, e li ha portati a Costantinopoli, un viaggio di cui non sappiamo nulla, per furto o per compravendita, o eredità, per uno di quei pochi motivi che muovono sempre gli uomini, e gli oggetti. I veneziani portano via così tante cose, colonne, fregi, marmi, sculture, arredi, che non sanno neanche dove metterle. Le nascondono nei palazzi, nei tesori, le ammucchiano in mezzo ai campi, le fanno scomparire, ma quei cavalli no, tutti devono vederli. La Basilica di San Marco è stata rifatta da poco, dal 1094, nel 1231 viene incendiata, è tutta un cantiere, e così è facile pensare di metterli lì, sopra l’ingresso, in mezzo ai mosaici e ai bassorilievi, in mezzo
Hanno più senso dell’umano che trionfo, gioventù più che arroganza, sapienza più che desiderio Chissà se un giorno se ne andranno ancora
ai colori, a unire tutto, Oriente e Occidente, Venezia e Bisanzio, la città che la comandava, la ispirava, le aveva insegnato le forme e le architetture, ma ora è sconfitta. I cavalli stanno lì; vegliano, attendono. Vedono altri cavalli, veri, girare per la piazza ancora sterrata, passare di isola in isola lungo passerelle di legno. Animali belli come loro, venuti dal litorale, dal Cavallino, da Equilium, la città dei cavalli, l’odierna Jesolo. Quello era il simbolo, la forza, la consuetudine, il potere. È che il tempo passa. Venezia cambia. Le strade sono lastricate, i ponti arcuati, i cavalli non si vedono quasi più, si gira con le gondole, le imbarcazioni, in acqua. Tutto cambia. Tutto finisce. Nel 1797, Napoleone avanza e Venezia cade. Tra l’estate e l’autunno, i francesi si prendono di tutto, di nuovo: oro, gemme, vasellame, drappi di seta, Tintoretto, Tiziano, Carpaccio, Veronese. Bruciano le statue a San Giorgio, per prendersi l’oro. Ma i quattro cavalli no, non li fondono. Sono troppo belli, se li portano via. Li celebrano, li fanno sfilare coi carri al campo di Marte. Li mettono nell’Arc du Carrousel, tra le Tuileries e il Louvre. Ma anche Napoleone finisce, e dopo il Congresso di Vienna i cavalli tornano a San Marco. Sono ancora lì, le copie esposte alle intemperie e gli originali conservati nel Museo. Hanno più umanità che trionfo, più gioventù che arroganza, più sapienza che desiderio. Hanno gli occhi tristi, che pare che capiscano. Mi domando se resteranno lì per sempre o, un giorno, ancora, se ne andranno.
Giovanni Montanaro (1983) è avvocato e scrittore. Il suo ultimo libro, uscito per Feltrinelli, è Guardami negli occhi.