Superbe invenzioni di Bory tra tempo, spazio e scrittura
Tratto da (e fedele a) Specie di spazi di Georges Perec, e in scena all’Argentina per Romaeuropa, Espaece di Aurélien Bory (nel titolo la «a» e la «e» si sovrappongono) è, alla lettera, meraviglioso: di continuo suscita ammirazione, stupore, domanda.
Considerando le esperienze di teatro si situa, incrociandoli, oltre Bob Wilson e Luca Ronconi: il talento del regista è assorbito dall’invenzione scenografica benché, naturalmente, non a questo limitato — un teatro di mera scenografia sarebbe di per sé un’eccentricità. Ma in Bory vi è anche un talento per l’uso del suono, e uno per l’uso della luce, e un altro, infine, per l’uso del corpo umano, dei movimenti nello spazio e nel tempo.
Descrivere Espaece è impossibile. Oppure sarebbe necessario vederlo e rivederlo, prendere appunti e avere la possibilità di tracciare brevi disegni da mutare, nel resoconto, in parole. All’inizio, i cinque attori, cui si aggiungono altre due presenze, sono allineati lungo un’oscura parete. Essa li sovrasta, loro si oppongono. Alzano le braccia impugnando libri. Li aprono in modi ammirevoli e così facendo scrivono parole: Scrivo, Leggo, Faccio.
Alla fine, un rombo incessante, simile a quello del principio, accompagna, o sottolinea, i movimenti di una macchina che sale e scende lungo la parete e vi incide singole vocali o consonanti enormi e luminose: da qualunque parte le si legga esse compongono la parola ECRIRE: l’accento sulla prima «e» non c’è, ma è come la mia incapacità di sovrapporre la «a» e la «e» del titolo. Nei sessantadue minuti di spettacolo, tra il principio e la fine (solo questo riesco a dire) la parete si rovescia, diventa una libreria multipla, incessante. Vi sono accatastati, di taglio, una quantità di libri.
Sono bianchi dentro e fuori: un acrobatico attore si prende la briga di mostrarcene uno, lo apre a caso, un po’ qui e un po’ là. Che cosa se ne fanno gli attori (le persone) di quei libri? Sul muro La Compagnie 111 in una scena di «Espaece» di Aurélien Bory sul palco del Teatro Argentina di Roma Quasi niente. Non hanno tempo. Il loro problema è lo spazio, prenderne coscienza, misurarlo, contrastarlo. Contrastare lo spazio equivale in ultima analisi a combattere il tempo.
La parete si snoda, si piega in due, rischia di schiacciarti, sei costretto a salire tenendola aperta con le gambe o ad arrampicarti come un clown e, arrivato in cima, a non poterne scendere. Non puoi più che lasciarti cadere là dietro, precipitare, sfracellarti.
Ma subito dopo, poiché il problema dello spazio non è che un problema del tempo, cioè della scrittura, cioè del «teatro», puoi uscire da quella porta, resuscitare. E puoi, quindi, non già con la voce ma con il corpo, con i gesti più buffi, raccontarci la tua vita, ossia la vita di tutti, la vita com’è. È questo infine il genio di Georges Perec, lo scrittore più stupefatto, o più disilluso, di tutti i tempi.
Si può dire che si limitava a stilare elenchi. Solo denotazioni, mai un cenno di connotazione. Dopo Kafka non c’è che Perec. Lo conobbi nel novembre del 1981. Parlava con una voce tremendamente rauca. Morì nel marzo nel 1982, a quarantasei anni.