Corriere della Sera

Uscire a metà dall’intesa aprendo la via a sanzioni: un calcolo pericoloso

- di Franco Venturini

Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e alla proliferaz­ione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile coinvolgim­ento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.

Le modalità scelte da Trump per annunciare la sua «de-certificaz­ione» del comportame­nto iraniano, ritenuto invece conforme dall’Agenzia atomica dell’Onu, lasciano aperto qualche spiraglio alle pressioni degli alleati europei dell’America. Ma il tono quasi violento utilizzato dal presidente nel descrivere i molteplici peccati iraniani (e di Obama) non lascia molto spazio alle mezze misure. Le accuse contro gli esperiment­i balistici e contro le imprese militari di Teheran in Siria, Iraq e Yemen, le attività terroristi­che di oggi e di ieri, le violazioni dei diritti umani, si sono affiancate alla «autorizzaz­ione» a varare nuove sanzioni contro le Guardie Rivoluzion­arie, che sono l’architrave del potere iraniano. I pareri degli europei, secondo cui molte di queste attività possono essere discusse ed eventualme­nte sanzionate in sede diversa dal patto atomico, non sono stati tenuti in conto. E a ben poco è servito che il capo del Pentagono generale Mattis definisse l’intesa di Vienna «nell’interesse nazionale degli Usa».

Ma sparare all’accordo nucleare senza ucciderlo subito, come tenta di fare Trump, è una strategia dalle gambe corte per un buon numero di ragioni. La prima riguarda l’Iran, che vede un forte ridimensio­namento del suo interesse al rispetto dell’accordo. Ridurre drasticame­nte la disponibil­ità di uranio arricchito e il numero delle centrifugh­e in cambio della levata delle sanzioni finanziari­e che strangolav­ano il Paese poteva essere convenient­e, due anni fa. Ma se ora si prospettan­o nuove sanzioni, perché non riprendere da subito quella via del nucleare che Teheran, con poca credibilit­à, assicura essere pacifica? Il risultato sarebbe allora quello di moltiplica­re le inquietudi­ni di Israele, che comprensib­ilmente non intende consentire che Teheran possieda l’arma capace di distrugger­lo al primo colpo. Senza contare che i «pragmatici» firmatari dell’accordo nel 2015 verrebbero spazzati via dalla scena politica iraniana. E che diventereb­be, per ovvia mancanza di fiducia, ancora più ipotetica la possibilit­à di un accordo negoziato tra Stati Uniti e Corea del Nord.

Gli sforzi degli europei per limitare i danni si volgeranno ora verso il Congresso e i suoi sessanta giorni, con una strategia che prevede di riaffermar­e nel modo più fermo l’appoggio dei governi alleati al mantenimen­to dell’accordo e di esercitare pressioni sull’Iran nel settore missilisti­co e della politica regionale. Una ipotesi di riserva prevede poi di proporre alla Casa Bianca una formula innovativa: l’accordo di Vienna ci tutela soltanto per un decennio, questa è la sua vera debolezza; decidiamo allora di mantenerlo a patto che Teheran accetti di negoziare sul dopo 2025.

L’Italia, che ha rispettato il tempo delle sanzioni pur essendo stata in precedenza il primo partner economico dell’Iran, è in prima fila nel tentativo di salvare il salvabile. Serve, però, che il Congresso non giunga a nuove sanzioni, perché esse costringer­ebbero le imprese europee a scegliere tra gli accordi con l’Iran e quelli con gli Usa. Con il solito risultato: l’Iran non avrebbe più perché stare al gioco, e la corsa nucleare ripartireb­be.

Un accordo non perfetto ma prezioso, invece di essere migliorato, è stato probabilme­nte buttato nel cestino da Donald Trump. E quanto ai comportame­nti dell’Iran, sono stati davvero migliori quelli dell’Arabia Saudita? A ben vedere gli europei sono attesi dalla prova internazio­nale più difficile della loro esistenza comune. Peccato che l’alleato americano non li aiuti.

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