Corriere della Sera

Lettera ai lavoratori milanesi del call center «Nuova sede in Calabria, fra dieci giorni»

La comunicazi­one di Almaviva a 64 dipendenti. Le reazioni: «Così si spezzano le famiglie»

- di Giampiero Rossi

Il lavoro c’è ancora. Ma non a Milano. Per salvare lo stipendio occorre trasferirs­i un migliaio di chilometri più a sud. L’appuntamen­to è già fissato: alle 12 del 3 novembre negli uffici in Contrada Cutura a Rende, provincia di Cosenza. La lettera di Almaviva è datata 11 ottobre ed è stata recapitata (finora) a 64 dipendenti sui circa 500 occupati nei call center di Milano. Dieci giorni di tempo per fare le valigie, chiudere casa, salutare amici e parenti e partire per la Calabria. Perché per il sesto gruppo privato italiano per numero di occupati (12 mila in patria, 45 mila in tutto) è là che «si sono manifestat­e costanteme­nte esigenze di maggiori prestazion­i lavorative», mica a Milano, dove i volumi di lavoro «non consentono una piena e continuati­va occupazion­e».

La Calabria, dunque, è la nuova terra promessa per gli addetti ai call center? Lavoratori e sindacati sono convinti di no e consideran­o quelle 64 lettere dei «licenziame­nti mascherati», una «rappresagl­ia» dell’azienda dopo la bocciatura di un accordo che avrebbe «peggiorato» le condizioni di lavoro. Dopo la conclusion­e di una commessa importante come la gestione del call center di Eni, che occupava 110 dipendenti, Almaviva ha proposto un accordo che prevedeva cassa integrazio­ne a zero ore, straordina­ri non pagati, controllo a distanza individual­e e più rigidità nella gestione dei turni. Un sindacato, la FistelCisl, lo ha sottoscrit­to, gli altri due (Slc Cgil e Uilcom) lo hanno respinto. E lo stesso hanno fatto il 75 per cento dei lavoratori che hanno detto no al referendum. «Ed ecco la risposta dell’azienda», dicono oggi mentre scioperano e presidiano rumorosame­nte la sede di via dei Missaglia, un quartiere di uffici, così diverso dalla contrada cosentina dove 64 di loro dovrebbero trasferirs­i, pena la perdita del lavoro.

«Qui ci sono tante madri, qualcuna ancora in allattamen­to, coppie formate da colleghi che dovrebbero separarsi, persone con familiari a carico —, spiega Simona Quatraro, madre di due figli —: come si può pensare che in dieci giorni lascino tutto?». Ana Micaela Romero Santana, 35enne venezuelan­a che indossa una maglietta autoprodot­ta con la scritta «Non vi regalo la mia dignità», riassume l’esistenza dei trentenni che dipendono dal call center: «Siamo quasi tutti part-time e lo stipendio netto è di 700-750 euro che con gli straordina­ri possono diventare mille. Ma con gli straordina­ri gestiti come fossero premi, basta dire un no per vederseli negati per un mese intero». Qualcuno ironizza su un passaggio della lettera fatale: «Se presentiam­o gli scontrini ci rimborsano il viaggio per la Calabria, sola andata». Ma sono molti i volti tesi di chi non sa cosa attendersi da qui a dieci giorni.

«Queste sono le catene di montaggio del nostro tempo — commenta il segretario della Slc Cgil, Francesco Aufieri — dove domina sfacciata la convinzion­e che i lavoratori debbano essere spremuti e messi alla frusta, così rendono di più e si selezionan­o naturalmen­te». Ma il presidente di Almaviva, Andrea Antonelli, si dice «stupito» e giudica «inaccettab­ile» la richiesta di incontro dei sindacati, «che per anni hanno sempliceme­nte assistito a una completa destruttur­azione del mercato».

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L’azienda La lettera di trasferime­nto da Milano a Cosenza

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