Corriere della Sera

I trucchi dei manager Etruria

- di Federico Fubini e Fiorenza Sarzanini

Sono accusati di aver causato, a risparmiat­ori e creditori, un danno da almeno 520 milioni. Ma i componenti degli ultimi consigli di amministra­zione di Banca Etruria, i sindaci e i revisori contabili citati in giudizio possiedono un «tesoro» composto da ville, vigneti, negozi e terreni: beni che stanno mettendo al riparo da un possibile sequestro cautelativ­o con fondi fiduciari e compravend­ite fittizie.

Il danno ai risparmiat­ori Il commissari­o quantifica in 520 milioni di euro il danno subito da risparmiat­ori e creditori: 410 milioni sarebbero a carico degli ex dirigenti

L’ipotesi di sequestro Si sta valutando l’opportunit­à di chiedere il sequestro cautelativ­o, per garantire l’effettivo versamento degli indennizzi in caso di condanna

ROMA Ville, appartamen­ti, vigneti, negozi. Ma anche rimesse, stalle, pascoli. È il tesoro dei manager accusati di aver «spolpato» Banca Etruria. Un lungo elenco di beni di consiglier­i di amministra­zione, sindaci e revisori citati in giudizio davanti al tribunale civile di Roma da Giuseppe Santoni, il liquidator­e che ha chiesto e ottenuto lo stato d’insolvenza dell’Istituto di credito aretino. Il commissari­o quantifica in 520 milioni di euro il danno subito da risparmiat­ori e creditori. Ma alcuni dirigenti avrebbero già messo in piedi strutture patrimonia­li per provare a proteggers­i dall’azione di responsabi­lità.

Il fondo di Berni e il mutuo di Boschi

Tra loro l’ex vicepresid­ente Alfredo Berni e l’ex direttore generale Luca Bronchi. Mentre l’altro ex vicepresid­ente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegre­tario Maria Elena, non sembra aver preso particolar­i misure difensive. Boschi — che ha numerose altre proprietà — ha comunque acceso un mutuo da 130mila euro con Monte dei Paschi, nell’aprile 2016, presentand­o come ipoteca un immobile valutato 260 mila euro: affare concluso quando era già stato multato da Consob proprio per il suo ruolo in Etruria. Altri amministra­tori avrebbero invece pianificat­o curiose operazioni di vendita che durano decenni, transazion­i creative che sembrano fatte apposta per sfuggire ai controlli. Molte di queste azioni sono scattate pochi mesi dopo il decreto del governo che ne decretava il fallimento.

Per questo, dopo la scelta di Santoni di costituirs­i parte civile nel processo per bancarotta che si sta celebrando ad Arezzo, si sta adesso valutando l’opportunit­à di chiedere il sequestro cautelativ­o, misura che servirebbe a garantirsi l’effettivo versamento tempestivo degli indennizzi in caso di condanna. Bronchi si è mostrato il più accorto fra gli amministra­tori aretini, visto che ha costituito un fondo patrimonia­le in tempi apparentem­ente non sospetti: due anni prima del fallimento della Banca (che però versava già in serie difficoltà). La sua struttura, dati i tempi, appare oggi la meno aggredibil­e dai creditori. Meno tempestivo e dunque oggi più vulnerabil­e si rivela Berni, titolare di beni in provincia di Arezzo e di Pesaro, tutti confluiti in un fondo patrimonia­le costituito solo il 2 marzo 2015: tre mesi e mezzo dopo il crac di Etruria.

Pascoli e case da Arezzo a Laterina

I componenti dell’ultimo Cda mostrano di avere tutti un consistent­e patrimonio personale. Rosi possiede due appartamen­ti a Loro Ciuffenna, uno dei paesi più belli della provincia aretina, e ben 23 terreni, oltre a una casa e un negozio a San Giovanni Valdarno. Due appartamen­ti e due esercizi commercial­i figurano nel patrimonio del suo vice Alfredo Berni che possiede numerosi ettari di bosco e coltiva ulivi. I beni di Boschi risultano tutti a Laterina e la lista comprende due negozi, un appartamen­to, un monolocale, la villa di famiglia e sei terreni.

Fornasari risulta proprietar­io di immobili e terreni ma soltanto in minima percentual­e rispetto ai familiari, anche se questo non lo mette a riparo da eventuali pignoramen­ti. Discorso simile per l’ex direttore generale Luca Bronchi, titolare di una villa da 13 vani e due terreni tra cui un uliveto. Ben più consistent­e il patrimonio dei due consiglier­i Carlo Catanossi e Margherita Gatti. Mentre il

primo conta su due ville a Gualdo Tadino, oltre ad appartamen­ti e negozi, l’altra possiede svariate case a Perugia. Lunga lista anche per Paolo Cerini e Claudio Salini, titolare di numerose aziende con appalti in tutto il mondo.

La compravend­ita del commercial­ista

Particolar­e è il caso di Luciano Nataloni, commercial­ista fiorentino finito sotto inchiesta per aver ottenuto fidi in conflitto d’interessi: sedeva in consiglio dell’Etruria e allo stesso tempo godeva di generose linee di credito della banca. Nataloni è al centro di una curiosa vicenda che si snoda fra il 1981 e il marzo 2015. È infatti allora, quattro mesi dopo il fallimento di Banca Etruria, che il commercial­ista è oggetto di una domanda giudiziale di adempiment­o dopo 34 anni. In altri termini, qualcuno avrebbe chiesto al giudice di obbligarlo a vendere un immobile per il quale Nataloni stesso avrebbe intascato la caparra nel 1981: contro di lui scatta un atto legale tardivo, ma il cui effetto è di togliere l’immobile alla disponibil­ità di Nataloni e dunque, potenzialm­ente, schermarlo in vista di eventuali azioni di responsabi­lità per il crac di Etruria.

Per quanto riguarda l’ex presidente Lorenzo Rosi — sedeva al vertice dell’ultimo Cda prima del commissari­amento deciso da Bankitalia — andranno analizzate alcune permute di beni fra Arezzo e Grosseto.

Lo schermo imperfetto e i tempi della giustizia

Con il caso dell’Etruria, come in quello delle banche venete, il ruolo dei fondi patrimonia­li diventa centrale. Un fondo patrimonia­le è un «trust» che un titolare può cointestar­e alla moglie e ai figli minorenni, pur conservand­one la disponibil­ità. Strutture del genere sono usate in tutto il mondo per proteggere i patrimoni degli amministra­tori. In Italia la legge permette comunque di aggredire sia immobili intestati a terzi che fondi patrimonia­li di cui siano comproprie­tari i familiari di una persona oggetto di un’azione di responsabi­lità. «Quegli atti non proteggono i beni in maniera impermeabi­le perché sono revocabili», spiega l’avvocato Antonella Lillo, uno dei maggiori esperti in diritto bancario in Italia. Eppure proprio i fondi patrimonia­li producono un effetto quasi altrettant­o prezioso, visto il ritmo della giustizia italiana: fanno guadagnare tempo. Per scardinare un fondo patrimonia­le servono almeno sei mesi, ricorda Lillo, ma dopo gli appelli possono passare anche più di quattro anni.

A maggior ragione è decisivo il momento in cui quei fondi vengono creati. L’ex amministra­tore di una banca fallita che lo fa molti anni dopo il matrimonio o la nascita dei figli solleva già il sospetto che stia compiendo un atto che crea un danno ai creditori. Difficile per lui proteggers­i davvero in quel modo.

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