Madrid, la crisi e la scoperta delle alleanze
Acominciare dalle regioni più povere, dall’Andalusia all’Estremadura, tradizionale bacino di voti socialisti: la rivale interna di Sánchez, la presidente andalusa Susana Díaz, è la prima avversaria dei duri di Barcellona. Se Sánchez mollasse Rajoy, il Psoe si spaccherebbe, e l’esito elettorale sarebbe nefasto; il Pp si ergerebbe a garante della sopravvivenza della Spagna, d’intesa con la monarchia e la Chiesa, e i socialisti si ritroverebbero in un angolo.
Tuttavia la portata storica della svolta non va sottovalutata. Perché non fa parte della cultura politica spagnola. Perché avviene in un Paese dove gli antenati politici della destra al potere ancora due generazioni fa mandavano gli oppositori di sinistra in carcere o alla garrota. E perché accade in un momento storico e in un’Europa percorsi da tensioni al limite
Portata epocale La svolta è storica perché accade in una fase di tensioni al limite dell’eversione
dell’eversione.
In Spagna forze che si sono combattute aspramente — Sánchez nel duello televisivo ha detto a Rajoy che «per governare bisogna essere persone decenti, e lei non lo è»—, e che mai potrebbero presentarsi unite alle elezioni, di fatto reggono insieme lo Stato, nel momento del pericolo. Si vedrà se questo basterà a disinnescare la crisi catalana; ma certo incoraggia i grandi gruppi industriali e finanziari a prendere la distanza dalla secessione (ieri l’aziendasimbolo della viticultura, Codorníu, in Catalogna dal 1551, si è trasferita nella Rioja).
Altri Paesi come la Francia risolvono le frammentazioni con un sistema politico che consente di individuare un leader e dargli cinque anni di tempo.
L’Italia sta cercando faticosamente un compromesso — insoddisfacente come ogni compromesso, ma meglio di nulla — su nuove regole elettorali.
L’unità territoriale del Paese non è in discussione, la Lega è passata da Padania Libera a Italia Sovrana. Ma anche da noi la dialettica da tempo non è più tra destra e sinistra, bensì tra sistema e antisistema.