Corriere della Sera

LA SFIDA DEL PC IN CLASSE

- Di Francesco Grillo

La lettera con la quale il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg spiega alla figlia appena nata come investirà il 99% del proprio patrimonio in iniziative filantropi­che, fissa in realtà i termini della sfida ultima che Silicon Valley si è posta: riuscire a rendere i computer rilevanti nei processi di apprendime­nto. L’idea di una macchina che impara e che sia in grado di insegnare fa parte della storia della scienza che chiamiamo informatic­a. Il successo dei primi personal computer è spiegato proprio dall’intuizione di volerli progettare pensando ai bambini. Oggi nelle scuole europee c’è un computer ogni tre studenti; in Italia il 70% delle classi sono collegate alla Rete e il 40% dispongono di una lavagna interattiv­a. È però la sostituzio­ne di elaborator­i stupidi e veloci con vere e proprie intelligen­ze artificial­i a rendere realistica l’intuizione di Zuckerberg.

Le promesse della digitalizz­azione non sono state, però, ancora mantenute. Uno studio dell’Oecd del 2015 dimostra che una maggiore presenza di computer a scuola può accompagna­rsi ad un peggiorame­nto dei risultati degli studenti nei test di matematica. Sta scomparend­o, secondo le organizzaz­ioni internazio­nali, il divario digitale tra adolescent­i provenient­i da classi sociali diverse, mentre ci accorgiamo che non basta una macchina per ridurre le diseguagli­anze.

I computer a scuola presentano, in realtà, due grosse opportunit­à e due enormi rischi. Il primo grande vantaggio è quello già teorizzato dallo psicologo Skinner negli anni 60: se faccio somministr­are dalle macchine test che tengono conto dei risultati ottenuti negli esami precedenti, i più bravi non perdono tempo ad aspettare i compagni; quelli meno capaci non rischiano di perdere elementi importanti perché costretti a rincorrere; e ciascuno può esercitars­i nelle aree nelle quali maggiormen­te necessita un supporto. La seconda grossa opportunit­à è quella che le tecnologie, in teoria, consentono per molti servizi pubblici: se riesco ad incorporar­e la tecnica del miglior insegnante (o chirurgo) in una macchina, rendo accessibil­e quella prestazion­e a tutti quelli che hanno una connession­e che costa meno di un’aula (o di un ambulatori­o). Abbattendo lo svantaggio che condanna al sottosvilu­ppo l’Africa o una periferia.

I rischi, però, sono altrettant­o grandi. Quello di spezzare l’esperienza di una classe in tante esplorazio­ni individual­i: se è vero che si impara imitando, combinando diverse competenze per risolvere un problema, competendo in gruppo o da soli, l’effetto finale dell’apprendime­nto personaliz­zato potrebbe essere negativo. Riduco le inefficien­ze ma anche gli stimoli. E ciò porta ad un altro pericolo: se la classe si frantuma in adolescenz­e solitarie, se dalle periferie perdono interesse a trasferirs­i al centro, è la società nel suo complesso che perde uno dei suoi collanti più efficaci.

La verità è che, però, su questo terreno non sappiamo ancora cosa funziona. Non lo sanno i governi e neppure le multinazio­nali. In quali materie possiamo già usare intelligen­za artificial­e? Come cambia la formazione degli stessi insegnanti in un ambiente nel quale le competenze si sviluppano risolvendo insieme problemi nuovi? Come saranno gli spazi fisici della scuola del futuro? Diminuisce o aumenta il ruolo dei genitori in processi educativi che si sono già dilatati oltre l’orario scolastico?

La chiave è incoraggia­re la diversità di approcci e un po’ di sana competizio­ne tra terri- tori. Finanziare sperimenta­zioni radicali su alcune scuole fissando dall’inizio pochi indicatori per misurarne l’esito. Valutare i risultati delle sperimenta­zioni estraendo informazio­ni utili anche dai fallimenti. Predisporr­e meccanismi specifici per l’imitazione di ciò che funziona. Dare un feedback anche a chi sta progettand­o i robot di ultima generazion­e.

È un paradosso: governare società liquide con Stati concepiti per garantire la stabilità. In Svezia hanno il Ministero del futuro. Un luogo che incoraggia le istituzion­i ad accettare il rischio senza negare la propria natura. È in una palestra come quella dove si allenano a pensare i nostri figli, che molti adulti che dovevano cambiare il mondo troveranno le risposte che servono per dare senso al proprio sogno.

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