Alberi di ferro e deserti di sangue, l’altrove anarchico di Eliza
Magadan, di lingua madre romena, scrive in italiano e in francese senza la mediazione di traduttori. È alla sua sesta raccolta, edita da Archinto
Poesia come penetrante visione. Si viaggia in una verità corrosa, desolante, disidratata, traghettati verso un comune mal d’esistere fra alberi di ferro, deserti che sanguinano, carri armati, bordelli zeppi di Maddalene, anziani in sedie a rotelle che inciampano sui marciapiedi della loro memoria disfatta. Una frammentazione d’immagini sferzanti e crude filmate alla Rainer Werner Fassbinder, offrendo squarci di vita tratti dall’evidente sgretolarsi della realtà contemporanea. Il sentimento della certezza che si cammini verso il centro di un’assenza, perché «Dio guarda altrove», certifica la necessità di testimonianza e sacrificio.
Questa è la sofferta missione che ritaglia per sé la poetessa romena Eliza Macadan nella silloge Pioggia lontano (Archinto). Nata nel 1967 a Bacau, nella Moldavia romena, l’autrice è un fenomeno assolutamente unico e originale in Europa. Poliglotta, del tutto indipendente dalla lingua madre, scrive direttamente in italiano i propri versi, e così accade pure per il francese.
Proseguendo nel percorso stilistico e tematico intrapreso nelle sue cinque precedenti raccolte Frammenti di spazio austero, Paradiso riassunto, Il cane borghese, Anestesia delle nevi, Passi passati, qui Eliza Macadan raggiunge l’acme del surrealismo ermetico. Il suo linguaggio più che essenziale, privo di punteggiatura, maiuscole e titoli, procede per ossimori e in particolare per sintagmi, fin dal titolo di questo volume.
L’evento atmosferico viene differito in un luogo altrove attraverso l’abilità di procedere sull’impalcatura della forma: uno slittamento sintattico a potenziare di ulteriore significato l’accostamento di due parole, riuscendo così a creare una sequenza inusitata, quasi fosse un tutt’uno che tende al neologismo.
Vale lo stesso per un altro iterato sintagma «nemmeno per sempre» con valenza a contrasto. Utilizzando versi fulminei, riarsi, prosciugati, risoluti, sferzanti, la struttura dell’enunciato, ricca di metafore e sinestesie, vive di anarchica autonomia e risulta vergine, fresca, desueta all’orecchio del lettore italiano. Ne escono straordinari flash di tragica umanità, che descrivono notti insonni color inchiostro, buie uscite d’emergenza, tunnel privi di sbocco, mattini che crollano addosso, tombe con musica, gambe sul volante per amori clandestini, incendi di lenzuola, sangue che precipita dal cosmo, follie oniriche, grida sorde d’incesti, attese per arrampicarsi sulle mura, mentre l’uragano piove, è ancora distante ma imminente. In uno dei frammenti si legge: «Guardiamo lo stesso abisso/ vedo nuvole gravide/ pronte ad annaffiarci/ le radici del cuore / per risuscitare il tronco/ caduto di vita in vita/ vedi fuoco che brucia le cellule/ del sangue fermo/ di tanta fatica/ dammi la mano e ti do i miei occhi/ alziamoci anche se non c’è più/ nulla da vivere».
È un atto di coraggio e attaccamento all’esistenza l’invito dell’autrice indirizzato a tutti di sollevarsi da terra e proseguire, nonostante la fine sia vicina. Così a vincere è l’infinito presente, quella fraterna terrestrità annientante che viene per ora concessa agli esseri umani, quando solo «nel buco della serratura» è possibile vedere l’occhio di Dio.