Un Trump, due Americhe. E noi?
Esce oggi per Longanesi il nuovo saggio dell’ambasciatore che osserva gli Usa senza risparmiare domande al Vecchio Continente Il presidente ha spaccato il Paese ma Sergio Romano avverte: ora l’Europa faccia scelte radicali
Igiudizi alla moda su questo o quel leader, specialmente quando vengono enfatizzati dalle moderne tecnologie di comunicazione, sono la tomba di ogni analisi e di ogni ponderazione. Accade però che talvolta le mode e le analisi coincidano, e allora, salve beninteso le diversità di opinione, occorre prendere atto della fondatezza del verdetto.
L’ultimo libro dell’ambasciatore Sergio Romano, dedicato a una serrata indagine su virtù e debolezze del presidente statunitense Donald Trump, appartiene a questa categoria. Nel titolo Trump e la fine dell’American Dream (Longanesi) è già ben presente un giudizio che associa strettamente il capo della Casa Bianca a un generale declino degli Stati Uniti, nella loro presenza internazionale ma anche, e l’autore insiste su questi aspetti talvolta trascurati, nella loro coesione sociale, nell’impatto delle religioni, nella saldezza dell’apparato produttivo.
Pagina dopo pagina, Romano smonta l’ipotesi che tanto era circolata, soprattutto in Italia, dopo l’elezione alla presidenza di Donald Trump. Sarà un altro Reagan, dicevano in molti, gli eccessi della campagna elettorale non resisteranno all’opera dei consiglieri del presidente, in America è sempre stato così. Invece Trump ha poco da spartire con i precedenti, compreso quello dell’ex attore, ma poi governatore della California, Ronald Reagan. Il Trump di Romano (e anche della realtà) è piuttosto un campione mondiale della retorica. Fin qui il governo ha lavorato contro il popolo, la nostra nazione deve rinascere, siamo vittime di patti iniqui che colpiscono l’industria americana e distruggono i posti di lavoro, paghiamo noi la difesa degli altri, questi sono alcuni dei suoi slogan. Con una inevitabile conclusione: con me sarà America first, e il popolo tornerà a comandare.
Non è un tribuno della sinistra rivoluzionaria, a dire questo. È un uomo straordinariamente ricco, assai controverso nei suoi affari, imprenditore di successo nel lusso e nello svago. Ma possiede un certo numero di carte segrete. Il suo predecessore Barack Obama, per cominciare. Noi, in Europa, non ci siamo quasi accorti che molti americani lo detestavano. Lo consideravano socialista e dunque pericoloso, gli rimproveravano errori che andavano dalla caduta di Mubarak alle indecisioni in Siria, avevano voglia di un ritorno all’America conservatrice e isolazionista. Trump fiuta l’occasione, perché il fiuto di certo non gli manca. E il suo avversario, una vulnerabile Hillary Clinton (che prenderà comunque due milioni e mezzo di voti popolari più di lui), gli pare una promessa di vittoria. Infatti le elezioni, grazie ai meccanismi del sistema Usa, incoronano Trump.
Comincia l’avventura, e comincia per Trump una faticosa selezione dei suoi consiglieri. Molti dei quali dureranno poco, compreso il micidiale Steve Bannon, eroe della destra fondamentalista e millenarista. La maggior parte cade però travolta dal Russiagate, il sospetto, cioè, che siano intercorsi contatti illeciti tra la campagna di Trump e la Russia di Putin, noto quest’ultimo per la sua antipatia verso Hillary Clinton. Cade Flynn, cade Sessions, cade il capo dell’Fbi, l’indagine in corso sfiora il figlio e il genero del presidente. Gli oppositori parlano di impeachment, uno sbocco improbabile anche perché Trump si appoggia alla potentissima industria delle armi. Il miglioramento dei rapporti con la Russia diventa però impossibile, e così il presidente si consola con sortite clamorose contro l’Obamacare, stuzzica un’Europa che non gli piace e scuote seriamente l’alleanza transatlantica con i dissensi sul clima e sul patto nucleare con l’Iran. La politica estera degli Usa entra nell’era della imprevedibilità e dei personalismi ambiziosi, quella che conosciamo oggi.
Dalla sua cronaca intelligente e ben più completa di queste righe, il libro di Romano trae due conclusioni. La prima riguarda le «due Americhe» che Trump ha ulteriormente allontanato l’una dall’altra: l’America internazionalista e liberale, aperta ai nuovi diritti e vicina agli alleati, contro quella nazionalista e isolazionista, sovranista e protezionista. Con la seconda, beninteso, che si identifica con Trump. Il presidente, osserva l’autore, non è stato eletto per una combinazione di malintesi o fraintendimenti. I suoi elettori lo hanno votato perché le sue promesse erano esattamente quelle che volevano sentire per far trionfare la loro America.
La seconda conclusione è contenuta in una domanda che Romano rivolge agli europei. Se è vero che gli errori internazionali dell’America del dopo Guerra fredda sono stati numerosi, se con Trump sta diventando evidente che l’America non è più in grado di far fronte alle responsabilità di una superpotenza, se è vero che Trump è un presidente nazionalista, isolazionista e imprevedibile, se è certo che le scelte della Nato nascono prevalentemente dalla volontà americana, perché gli europei non fanno a meno dell’Alleanza e diventano liberi di organizzare la propria difesa?
Il problema, a prescindere da una comunanza di valori che Trump non riuscirà a distruggere, è che gli europei d’Oriente sono tenacemente filo-Nato perché si sentono minacciati dalla Russia e quelli «occidentali» sono filo-Nato anch’essi, almeno fino a quando non esisterà una vera difesa europea. Ma la provocazione di Romano non può ignorare questa realtà. Il suo intento è piuttosto quello di sottolineare una prospettiva che meglio di tutti ha indicato Angela Merkel, quando ha detto che «gli europei devono prendere in mano il loro destino».