Corriere della Sera

Tutti gli esordi di Philip Roth

Il gigante americano procede per strappi, lacerazion­i. E sembra ogni volta ricomincia­re

- Di Emanuele Trevi

«Scrivila, per amor di Dio. Scrivi quella storia». Philip Roth non si è mai dimenticat­o queste parole di incoraggia­mento, ascoltate quando era ancora giovanissi­mo, in una taverna della Chicago University. A pronunciar­le fu Richard Stern, Dick per gli amici, critico influente, romanziere lui stesso, e grande educatore di talenti in erba.

È un episodio che Roth ha più volte rievocato, quasi trasforman­dolo in un piccolo «mito dell’origine», e vale la pena tornarci sopra, perché contiene un’inestimabi­le lezione di scrittura. Per divertire Stern, durante un pranzo Roth gli aveva raccontato una sua storia d’amore con una ragazza dei sobborghi ricchi di Newark, figlia di un industrial­e del vetro. Entrambi ebrei, ma divisi da un abisso sociale. Gli piaceva raccontare storie di famiglia e di quartiere. La comunità ebraica di Newark, in effetti, con i suoi tipi umani, le sue leggende, i suoi pettegolez­zi, era una miniera narrativa inesauribi­le. Ma tutti i giovani commettono lo stesso errore iniziale, credono che una cosa sono i racconti che si fanno agli amici, un’altra ciò che si dovrebbe scrivere. È così che la letteratur­a diventa una falsa vocazione, una specie di sordità che impedisce di ascoltare la propria voce, di affidarsi al suo ritmo, di riprodurlo sulla pagina.

Quell’esortazion­e di Stern ebbe il valore di un orientamen­to decisivo. Ciò che cercava a tentoni, l’ambizioso apprendist­a che era Roth lo aveva sotto il naso, come la famosa lettera rubata. «Scrivi quella storia» non ha un significat­o diverso da «vivi la tua vita», così come i grandi maestri, Conrad o James o Flaubert, avevano vissuto la loro. «Scrivila, per amor di Dio». Lo ha detto benissimo Alessandro Piperno: la lettura del Lamento di Portnoy gli ha insegnato che bisogna lavorare con il «poco» che la sorte ci ha riservato. Il «tanto» degli altri non vale nulla. Ci vollero un paio d’anni, ma nella primavera del 1959 il libro d’esordio di Roth, Goodbye, Columbus, realizzò nel modo più incantevol­e e sorprenden­te che si potesse immaginare l’auspicio di Dick Stern. Iniziò così, a ventisei anni, una carriera tra le più ricche, complesse, coinvolgen­ti che la storia della letteratur­a moderna ricordi.

Di fronte a tanti capolavori, a un senso così acuto e profondo della natura umana, a un umorismo così irresistib­ile, si stenta davvero a credere che il «Meridiano» dei Romanzi di Philip Roth curato da Elèna Mortara sia solo il primo dei tre che verranno dedicati all’opera del gigante (come altrimenti definirlo?) di Newark. Eppure è proprio così: questo grosso volume è solo l’inizio, e arrivati alla Controvita, il libro del 1986 che chiude l’indice, non possiamo dimenticar­e che il meglio deve ancora venire, che la strada che porta, tanto per fare un esempio, alle ultime pagine di Pastorale americana è ancora lunga e accidentat­a.

L’opera di certi scrittori fa pensare a una crescita arborea, tanto è saggiament­e calibrato il rapporto tra le energie e i risultati. Bernard Malamud, tanto adorato da Roth, procedeva in questo modo. Ma Roth appartiene a tutt’altra razza: non amministra saggiament­e il capitale, va avanti per strappi, lacerazion­i. Quanto più lo si legge e lo si ama, tanto più si è consapevol­i che è capace di imboccare strade sbagliate. L’esperiment­o soverchia sempre l’esperienza. Se dovessi esprimere il senso profondo della sua arte in una formula sintetica, la prenderei a prestito dal più grande critico russo del Novecento, Viktor Sklovskij, che intitolò il suo ultimo libro L’energia dell’errore. La conseguenz­a più emozionant­e di questo atteggiame­nto è che, di fronte a una raccolta dei suoi libri, proviamo l’inebriante sensazione di leggere uno scrittore che, in virtù di un singolare sortilegio, sia riuscito a esordire molte volte: da giovane, da vecchio, durante la mezza età. A dieci anni esatti da Goodbye, Columbus, e dopo due libri scarsament­e riusciti, Il lamento di Portnoy non è forse un nuovo, dirompente inizio?

In un modo o nell’altro, dai romanzi migliori di Conrad a quelli di Bernhard, passando per i monologhi di Beckett, tutti i massimi capolavori letterari del Novecento sono un omaggio alla voce umana: alla sua capacità di persuasion­e e mistificaz­ione, al suo carattere demiurgico, alla sua doppia natura corporale e spirituale. La lunga confession­e di Alexander Portnoy presuppone un solo interlocut­ore, muto fino all’ultima pagina: il dottor Spielvogel, psicoanali­sta di presumibil­e scuola freudiana. È in questa particolar­e situazione che il gesto narrativo rivela le sue vocazioni più nascoste e represse: la profanazio­ne, la dissacrazi­one. Nel primo libro, l’evocazione della famiglia ebraica era tutta giocata sul filo di un’ironia arguta e malinconic­a. Nel Lamento, l’impareggia­bile maestria dello stile è messa al servizio di una tonalità grottesca che non conosce più cautele o censure. Lo scandalo fu tale che addirittur­a Gershom Scholem, l’eminente filosofo e studioso della Cabala e del misticismo ebraico, professore all’Università di Gerusalemm­e, scese in campo definendo quello di Roth «il libro auspicato da tutti gli antisemiti». Ma cosa è possibile tradire, se non ciò che amiamo ? E come può un artista essere se stesso e rispettare le regole dell’appartenen­za?

Sembra quasi naturale che tutti i conflitti che Roth si è trovato ad affrontare abbiano preso corpo in un personaggi­o narrativo destinato a svolgere un ruolo decisivo nella sua opera. Sto parlando, ovviamente, di Nathan Zuckerman, l’intrepido e disgustato esplorator­e dell’«egosfera», scrittore ebreo di Newark, che con Roth condivide lo scandalo e il successo, oltre alla passione per le avventure erotiche.

Solo molto superficia­lmente si potrebbe definire Zuckerman un semplice «alter ego dello scrittore». A partire dal 1979, quando compare come protagonis­ta del suo primo romanzo, Lo scrittore fantasma, Zuckerman, quest’«uomo diviso dagli altri», è diventato il personaggi­o più ricco e complesso della letteratur­a dei nostri tempi. Libro dopo libro, Roth lo ha sottospost­o all’azione del tempo, usurandone il corpo ed esacerband­one i difetti del carattere, ma anche rendendolo capace di lucidità, compassion­e, senso esatto del destino umano e dei suoi innumerevo­li scherzi. Sin dai primi libri che Roth gli dedica (noi italiani abbiamo la fortuna di leggerli nelle bellissime versioni di Vincenzo Mantovani), ci rendiamo conto che Zuckerman è sì uno scrittore, ma che la sua portata umana eccede di gran lunga un particolar­e mestiere, una particolar­e origine o condizione sociale. È un’immagine comica e disperata della natura umana quella che ci si rivela in libri come Zuckerman scatenato o La lezione di anatomia. È la storia di tutti nella misura in cui dobbiamo affrontare la solitudine necessaria a diventare noi stessi, e lo spavento che ne consegue. Senza che tutta questa fatica approdi necessaria­mente a una qualche forma di illusoria saggezza. «L’anima», osserva Zuckerman in un lampo di vertiginos­a consapevol­ezza, «affonda nel ridicolo proprio nel momento in cui lotta per la propria salvezza».

Ci fosse stato un Dick Stern ad ascoltarlo, non avrebbe potuto che dirgli: scrivi di questo, per l’amor di Dio, scrivi questa storia, lascia perdere tutto il resto.

Lo stile e i temi L’umorismo irresistib­ile, il senso acuto e profondo della natura umana ci sono già in questi primi capolavori

 ??  ?? Un ritratto di Philip Roth a New York. Lo scrittore americano è nato a Newark, nello stato del New Jersey, il 19 marzo 1933 (foto Reuters/Eric Thayer)
Un ritratto di Philip Roth a New York. Lo scrittore americano è nato a Newark, nello stato del New Jersey, il 19 marzo 1933 (foto Reuters/Eric Thayer)

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