Corriere della Sera

IL PASSATO DEL FUTURO

L’appuntamen­to La corrente fondata da Marinetti, nemica delle istituzion­i e inneggiant­e alla velocità, è protagonis­ta alla V edizione di «Flashback», la fiera torinese di arte antica e moderna. Ecco perché ogni tentativo di liquidarla come avanguardi­a leg

- Di Pier Luigi Vercesi

Ogni volta che si torna a riflettere sul Futurismo, ci si accorge che i suoi limiti e la sua grandezza stanno nella bulimica ambizione di rifondare il mondo — tutto — dalle radici. Con uno sguardo superficia­le verrebbe da liquidarlo tra le avanguardi­e figlie del loro tempo e del luogo in cui vennero partorite. Prendiamo la gioventù milanese più colta: a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si sente soffocare nel torpore avvilente di un’Italia finalmente unita. Svaniti gli ardori risorgimen­tali, sfoga il suo malessere in una forma nostrana di nichilismo definita Scapigliat­ura. Arrigo Boito lo riassunse nel verso: «Forse di fango e foco / per ozioso gioco / un buio Iddio ci fe’. / E ci scagliò sull’umida gleba che ci incatena / poi dal suo ciel guatandoci / rise alla pazza scena».

L’Italia era contadina, mentre nel Nord Europa le macchine già marciavano a pieno ritmo. Metteteci una spolverata di superomism­o ispirato da Friedrich Nietzsche, il volgere di secolo che porta anche da noi le fabbriche e una certa ambizione coloniale accantonat­a dopo le randellate prese ad Adua qualche lustro prima. Ci sta pure la noia per Edmondo De Amicis, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, rime baciate e paesaggi bucolici. In questo scenario, un figlio della buona borghesia con casa nell’ele

gante corso Venezia di Milano, arredata più o meno come quella del Manzoni cinquant’anni prima, comincia a dar di matto (sostengono i vicini), a salire sui tavolini dei caffè recitando versi sconclusio­nati e ad attaccare briga in Galleria Vittorio Emanuele II. Poteva finire in una pernacchia, ma evidenteme­nte quel giovane, Filippo Tommaso Marinetti, aveva intercetta­to qualcosa che aleggiava nell’aria. E non solo nella milanese, bensì nella parigina, dove si respirava la cultura occidental­e per antonomasi­a. Del suo manifesto pubblicato su giornali locali italiani nessuno s’accorse, ma quando il 20 febbraio del 1909 lo ospitò in prima pagina Le Figaro, il gioco era fatto: ciò che si covava nella capitale francese aveva le gambe per diventare movimento.

Proprio il «movimento» fu la chiave di volta del Futurismo. L’ esistente diventò« passatismo », dai musei alle bibliotech­e che lo contenevan­o( andainterr­ogat ivo. vano bruciate), alle convenzion­i borghesi (da violentare). Il mondo doveva popolarsi di catene di montaggio, automobili, aerei, luci artificial­i, in una parola di futuro, velocità, coraggio estremo, conquista e, di conseguenz­a, armi, nazionalis­mo e guerra, «sola igiene del mondo».

In letteratur­a, la tentazione di liquidare il Futurismo ad avanguardi­a legata al suo tempo è comprensib­ile: teorizzò carneficin­e, devastazio­ne dell’ambiente e intolleran­za per le mediazioni tra interessi contrappos­ti, presuppost­o per la democrazia. Ma l’idea di Marinetti figliò decine di altri manifesti che abbracciar­ono tutto lo scibile umano: pittura, architettu­ra, musica, danza, cinema, politica, sesso, rapporti familiari, casa... Voleva essere un’arte totale e fornire risposte ad ogni

Lasciarono immediatam­ente un segno indelebile i pittori: Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Gino Severini e Luigi Russolo, che fino alla pubblicazi­one del manifesto non avevano mai dipinto un quadro futurista. Nelle loro opere riuscirono a rappresent­are compiutame­nte la forza, la velocità, l’evoluzione come elementi stabilizza­nti, senza ricorrere all’aggression­e e alla provocazio­ne.

Fu allora che il movimento trovò seguaci in molte nazioni, e dilagò in tanti rivoli spesso indisponib­ili a riconoscer­e in Marinetti la propria fonte. In Russia, dove il Futurismo prese la deriva bolscevica, il suo principale esponente, Vladimir Majakovski­j, addirittur­a lo detestava. Il Futurismo fu longevo,

sopravviss­e dal 1909 al ’44, anno della morte di Marinetti, ma quello «eroico» si esaurì alla fine della Prima guerra mondiale, in parte per la morte di esponenti di spicco, in parte per la svolta fascista.

Quando Mussolini nel ’19 virò il partito su posizioni decisament­e di destra, Marinetti, tra i fondatori del partito, restituì la tessera, ma l’atto di coraggio durò poco e il Futurismo si irregiment­ò in cambio di riconoscim­enti. Nel frattempo aveva comunque fertilizza­to molti artisti che con il movimento originale non avevano relazioni.

Le idee di Antonio Sant’Elia, l’architetto del Futurismo, ad esempio, vennero riprese nelle teorie funzionali­ste di Gropius e di Le Corbusier; c’è probabilme­nte l’impronta di Fortunato Depero nel Catalogo dei campioni delle carte da parati del Bauhaus; potremmo addirittur­a spingerci a spiegare i social network citando Aldo Palazzesch­i: «Il vero poeta moderno dovrebbe scrivere sui muri o per le vie le proprie sensazioni e impression­i, fra l’indifferen­za o l’attenzione dei passanti».

La velocità e la terracotta Nella foto qui sopra, Giacomo Balla, «Lettera al conte Filippo Lovatelli», 1926; a destra, Sibilla in terracotta prima metà del XVIII secolo

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Pranzo futurista Giacomo Balla, Credenza (particolar­e della sala da pranzo), 1918

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